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 2020  ottobre 17 Sabato calendario

QQAN10 1QQAFM11 Nicola Lagioia su "La città dei vivi" (Einaudi)

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Ricordo molto bene quando sentii la prima volta al telegiornale la notizia della morte di Luca Varani. Era la prima domenica di marzo del 2016. La sera, dopo avere smesso di fare ciò a cui mi dedicavo da mesi per parecchie ore al giorno - lavorare a un libro -, uscii dalla mia stanza e intercettai lo schermo del televisore acceso nel soggiorno. Rimasi ad ascoltare fino alla fine del servizio, poi entrai nella cucina scuro in viso.

Ero turbato da ciò che avevo sentito. Si trattava di un omicidio violentissimo, per quanto molti elementi del racconto fossero ancora incerti. Il delitto era davvero privo di movente? Era vero che uno degli assassini non conosceva nemmeno il nome della vittima? Soprattutto: cosa poteva avere spinto due ragazzi di buona famiglia, considerati «normali» fino al giorno prima, a rendersi protagonisti di un massacro che per crudeltà, furia, modalità d’esecuzione ricordava più un crimine di guerra (quelle atrocità che si consumano in contesti dove il diritto è sospeso e tutto diventa possibile) che un delitto metropolitano?

È pur vero che le cronache ci riempiono continuamente di notizie orrende. L’assuefazione è un mostro da cui veniamo sconfitti ogni mattina. E allora? Cosa mi aveva colpito in modo tanto forte da provocarmi un radicale cambiamento dell’umore nel giro di pochi minuti? La sensazione - non saprei dirlo meglio - fu simile a quando, per strada, riconosciamo su un passante i tratti di una persona che conosciamo bene, che non vediamo da tempo (una persona, anzi, che credevamo di non dover vedere mai più), ma con la quale abbiamo un conto ancora aperto.

Il giorno dopo ripresi a lavorare. Continuavo a pensare al delitto Varani, ma mi sforzavo di tenerlo confinato in un angolo della mente. Stavo vivendo un periodo tranquillo della mia vita. Non succedeva da anni. Le settimane si susseguivano senza scossoni. Mi ero sposato. Avevo un lavoro con qualche margine di stabilità. Gestivo le cose con una certa padronanza. La padronanza, di solito, la esercitiamo su ciò che abbiamo già compreso. Temevo insomma che il caso Varani potesse provocare un deragliamento in tutto ciò che amavo, e mi sforzavo di proteggere. Non bisogna sciogliere per forza tutti i nodi. Poi, però, successe una cosa davvero improbabile. Mi chiamò la giornalista di un noto settimanale e mi chiese se volevo occuparmi del caso. Risposi subito di no. Fui quasi maleducato, sicuramente sbrigativo. Non avevo mai scritto di cronaca nera in vita mia, pensai, quante probabilità c’erano che mi chiedessero di seguire proprio il caso da cui stavo cercando di tenermi alla larga?

Mi credevo al riparo. Ma quando, chiusa la telefonata, tornai davanti al computer, scoprii che il libro a cui stavo lavorando, semplicemente, non esisteva più. Vidi il testo a cui avevo dedicato tanto impegno sbriciolarsi pagina dopo pagina, scalzato non da un’idea brillante per un nuovo libro (a un nuovo libro non pensavo ancora) ma da una forza - e una forza piuttosto oscura - di cui di fatto non sapevo niente.

È cominciata così. Ho trascorso le settimane, poi i mesi, poi gli anni successivi a lavorare su questa storia, a leggere gli atti, le intercettazioni, i documenti, a girare senza sosta per Roma, soprattutto a parlare con la gente. Con i diretti interessati, coi famigliari delle persone coinvolte, quelli almeno che hanno accettato di parlare con me, con l’ultimo assassino ancora in vita, con cui ho avuto una lunga corrispondenza. Ho intrapreso, senza quasi rendermene conto, una discesa notturna nella città di Roma - una città che negli anni mi è apparsa sempre più bella e perduta -, un viaggio che mi ha portato ovunque per incontrare persone di tutti i tipi: gestori di locali, pr di discoteca, carabinieri, magistrati, spacciatori, uomini politici, personaggi dello spettacolo, ragazzi di ogni zona cittadina, ognuno in qualche modo toccato dal delitto.

Posso parlare su un palcoscenico davanti a un pubblico di sconosciuti. Ma di fondo sono timido. Non sarei riuscito, in un’altra situazione, ad approcciare degli estranei su una questione tanto delicata, su una storia così tragica, in certi casi a guadagnarmi la loro fiducia. Credo di aver attinto da risorse che di norma non mi appartengono. Il fatto è che si trattava di una storia di ragazzi, e io sono stato un adolescente che (come si dice in gergo) se l’è rischiata. Da adulto al riparo, so poi che se i ragazzi vivono in un mondo orrendo la responsabilità è anche di chi quel mondo glielo ha costruito intorno, cioè nostra. Quella storia era il conto sospeso con il ragazzo che sono stato, e un conto maggiormente aperto col presente in cui annaspiamo tutti. E poi Roma, «l’unica città mediorientale che non possiede un quartiere europeo». Roma oggi è un caso quasi unico in Europa. Da una parte lo sfascio, dall’altra una vitalità debordante, una deriva di cui non si intravede il fondo e al tempo stesso un senso di libertà capace di causare dipendenza (credo di esserne assuefatto) e quindi di favorire anche i peggiori processi degenerativi. Bella. Dissoluta. Inconoscibile. Sguaiata. Un mercato dove tutti si confessano pubblicamente affinché il nodo del segreto venga stretto con più forza. Risolvere i problemi lasciandoli morire è la sua strategia. Il disordine la sua disciplina. Il «centro della paralisi», per dirla con Joyce che pensava a Dublino, e dunque il vero luogo da interrogare.

Credo di aver scritto questo libro anche da parte in causa, ed è il motivo per il quale a un certo punto sono stato capace di andare in posti dove non mi sarei spinto, di fare domande che non avrei avuto il coraggio di porre. Succede per un periodo che non dura mai per sempre, e succede quando sei immerso in ciò che stai facendo in modo tanto intenso da sentire risuonare la tua vita con quella degli altri. Siamo tutti espressione di una «debole forza messianica», scriveva Walter Benjamin. Una «forza messianica» nel paesaggio di un orribile delitto? Forse mi illudo che sciagura e grazia non siano per sempre inconciliabili.