Affari&Finanza, 19 ottobre 2020
Aspi e borsa italiana: l’uso improprio dei soldi di Cdp
Per capire se lo Stato stia tornando in Italia a fare troppo e male intervenendo direttamente nell’economia, la via sbagliata è quella delle formule ideologiche. Anche se politica e dibattito pubblico le amano, in un mondo iper-regolato contano innanzitutto le norme. L’Italia è tenuta a osservare le regole del mercato unico europeo e gli orientamenti e le decisioni in materia di concorrenza della Commissione. Vanno dunque distinti con precisione due ambiti diversi. Innanzitutto che cosa lo Stato possa, e che cosa no. Poi che cosa, in termini di opportunità economica, possa e voglia invece fare nella vasta area grigia che anche la miglior regola codificata lascia aperta. Questo, in tempi ordinari. Nel Covid, si aggiunge una terza dimensione: ciò che lo Stato – ancora una volta, nel nostro caso la Ue – decide di poter fare in più per fronteggiare l’emergenza. Nel diritto e nelle decisioni comunitarie, fa testo quanto previsto dall’articolo 107 del Trattato Europeo. Interventi pubblici straordinari per fronteggiare calamità naturali ed eventi eccezionali devono essere sì adeguati, ma strettamente proporzionati ai danni creatisi e soprattutto temporanei, cioè adottati con un preciso orizzonte limitato. La Commissione Europea è stata tempestiva nel definire caratteristiche e limiti degli interventi pubblici di emergenza nelle imprese: ben quattro revisioni e ampliamenti da marzo a oggi delle deroghe al divieto di aiuti di Stato concesse a fini anti Covid. Non a caso tali deroghe assumono il nome Temporary Framework, non sostituiscono ma integrano a tempo limitato l’acquis comunitario. L’ultimo ampliamento è della settimana scorsa, ed estende con precisi limiti la facoltà degli Stati di ristorare anche costi straordinari di esercizio dipendenti da cali di fatturato nel Covid, estendendoli a piccole medie e grandi imprese non già in difficoltà a fine 2019, come già si era fatto per le linee aeree. In questa vasta categoria di eccezioni – prestiti con garanzia pubblica per sostegno alla liquidità, partecipazione pubblica al capitale di imprese a rischio fallimento per Covid, assicurazioni e controassicurazioni all’export e via proseguendo – rientrano le misure adottate da tutti i Paesi Ue, ma poiché sommando gli stanziamenti massimo potenziali pluriennali la Commissione ne ha contati fino all’astronomica cifra di di 3 mila miliardi di euro, occorre capire quanti davvero siano stati i soldi impegnati finora. Tanto che la Commissione ha già chiesto ai governi risposte concrete. I decreti primaverili ed estivi del governo Conte hanno richiesto sin qui ben 17 autorizzazioni di deroga concesse dalla Commissione, alla luce delle linee guida che in decine di pagine fissano limiti quantitativi e temporali molto precisi per ogni tipo d’intervento.
Le norme europee
Sin qui, il vero problema per l’Italia è se davvero rispetterà le norme europee, soprattutto la loro temporaneità, a partire dal meccanismo previsto di partecipazione al capitale di società assistite ma entro il limite dei sei anni. È solo un esempio, l’ampiezza degli strumenti usati comporta decine di paletti: ad esempio che la garanzia pubblica ai crediti si traduca in un vantaggio solo per il beneficiario del credito, non per l’intermediario. Ma il problema italiano non sono gli aiuti d’emergenza. Bensì le violazioni esplicite al primo ambito, ciò che lo Stato non può fare intervenendo con criteri non di mercato in imprese che non si reggevano prima del Covid. Inoltre, ciò che da tempo lo Stato italiano ha deciso di fare nella vasta area grigia in cui che cosa sia aiuto di Stato o meno non appare così certo. L’esempio eclatante delle violazioni esplicite è quello avvenuto da anni su Alitalia. Che con il Covid non c’entra nulla, visto che perdeva a bocca di barile da anni. Il prestito ponte adottato per anni prima di rinazionalizzarla è chiaramente in violazione delle norme europee. E la nazionalizzazione con capitale pubblico lo è altrettanto se non vi è netta discontinuità organizzativa, finanziaria e di perimetro tra l’Alitalia commissariata e questa tornata statale. Non a caso entrambe le questioni restano all’esame della Commissione. L’altra anomalia italiana sta nell’infinita serie di partecipazioni e interventi messi in campo da strumenti come Invitalia da una parte, diventata una Gepi rediviva. E soprattutto da Cassa depositi e prestiti, che agisce fuori dal perimetro del debito pubblico grazie al 16% che nel suo capitale detengono le Fondazioni bancarie, ma che a maggior ragione dovrebbe limitare i suoi interventi a stretti criteri di mercato e senza sottoporre a rischi impropri i suoi mezzi finanziari, derivanti dalla raccolta postale garantita dallo Stato.
KfW e Cdp
Non è un caso che il vicepresidente di Cdp, l’economista Luigi Paganetto, abbia dichiarato che la Cassa doveva star fuori da partite come quella di Aspi e di Borsa Italiana. Sbaglia chi ripete che l’equivalente tedesco, la KfW, fa cose del tutto analoghe. KfW non rinazionalizza imprese private. Ma, soprattutto, la KfW è una banca mentre Cdp non ha licenza bancaria. Cdp ricava oltre il 90% delle sue risorse dal risparmio postale mentre KfW lo fa attraverso emissioni sui mercati mondiali a rating AAA mentre quello di Cdp è BBB. Eppure, ciò malgrado, prima del Covid la KfW garantiva prestiti sul Pil tedesco inferiori di 5 punti a quanto facesse Cdp rispetto al Pil italiano, già prima del Covid. Cdp non grava sul debito pubblico, ma i suoi attivi li ha costituiti con risparmio garantito dallo Stato. Usarla per rinazionalizzazioni striscianti è del tutto improprio. E infatti, se nella vicenda Aspi il governo voleva usare Cdp per rinazionalizzarla a costo zero, la certezza della bocciatura europea ha dovuto ridurlo a più miti consigli e ora Cdp sta trattando coi Benetton la loro uscita a prezzi di mercato, cioè pagando miliardi.