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 2020  ottobre 19 Lunedì calendario

Non basterà una app per rianimare il mercato del lavoro

In un governo al quale non fa difetto la fantasia, l’ultima pensata per aggredire la disoccupazione rendendo realtà la finora vana suggestione che il reddito di cittadinanza sia un trampolino per il posto di lavoro è una app. Le ministre del Lavoro e dell’Innovazione Nunzia Catalfo e Paola Pisano, espressione entrambe del Movimento 5 Stelle, a quanto pare, stanno riflettendo da mesi sulla spinosa questione. Già a maggio, riporta l’agenzia Ansa, avevano siglato un “protocollo d’intesa per realizzare un sistema digitale per migliorare l’efficienza del mercato del lavoro e per attuare il sistema informativo del reddito di cittadinanza”. Di quel “protocollo d’intesa”, formula che secondo una esperienza consolidata serve a manifestare semplicemente un’intenzione, non abbiamo ancora visto fatti concreti. Forse perché nel frattempo il ministero dell’Innovazione è stato impegnato con il lavoro della task force sul Covid-19 istituita il 31 marzo con otto gruppi per 76 persone: lavoro che senz’altro procederà alacremente, ma del quale al momento non conosciamo alcun esito. Attendiamo ora con ansia i risultati di questa nuova iniziativa, affidata a una nuova task force della ministra Pisano che dovrebbe realizzare l’app per far incontrare domanda e offerta di lavoro entro sei mesi.
L’arrivo dei navigator
Per capirci qualcosa, a questo punto, occorre riavvolgere il nastro. Due anni fa il Movimento 5 Stelle, dopo aver conquistato il governo insieme alla Lega, riesce a vincere la battaglia sul reddito di cittadinanza. Chi critica la misura ritenendola un puro sussidio che inoltre, per com’è congegnata, taglierà fuori molti veri poveri senza impedire tanti abusi, viene liquidato con l’affermazione che il reddito di cittadinanza sarà invece il motore di una forte ripresa dell’occupazione. A dimostrazione che la tesi è fondata c’è l’assunzione di alcune migliaia di navigator, ossia persone che devono accompagnare i beneficiari del reddito di cittadinanza nella ricerca di un’occupazione. E qui già c’è qualcosa che scricchiola, visto che i navigator sono prevalentemente disoccupati che non hanno trovato fino a quel momento nemmeno un lavoro per sé. Mentre l’operazione navigator comunque procede, dagli Stati Uniti l’allora vicepremier e ministro del Lavoro Luigi Di Maio chiama a presiedere l’Anpal, ente pubblico incaricato di seguire le politiche attive del lavoro, un professore italiano emigrato nel Mississipi. Tal Mimmo Parisi, presentato dal ministro come il mago capace di dare una svolta a un sistema asfittico e inconcludente, del quale però le cronache si sono più occupate per una questione di profumate note spese che per i risultati. Che oggettivamente non si vedono. Come non si sono ancora visti i riflessi concreti della riforma dei centri per l’impiego, descritta come il pilastro della nuova politica, ma della quale non esiste ancora alcuna traccia.
Il miracolo digitale
In tutta onestà va precisato che l’epidemia di coronavirus, con la violenta emorragia di posti di lavoro, non ha facilitato le cose. Ma che prima del lockdown si fosse avvistato almeno qualche segnale, non si può proprio dire.
Così adesso ecco un nuovo coniglio che salta fuori dal cappello, l’annuncio di una “app”, che sarà pronta fra sei mesi. Annuncio che a ben vedere ha il sapore di un’ammissione di fallimento totale di tutto quello che in modo dilettantesco (non) è stato messo in piedi finora. Con l’idea che il miracolo digitale potrà cancellarlo. Semplicemente assurda, come ha ben spiegato su lavoce.info il sociologo del lavoro Francesco Giubileo. Per il semplice fatto, argomenta, che «chiunque oggi intenda cercare manodopera o lavoro può tranquillamente utilizzare i numerosi motori di ricerca del lavoro online». Senza contare, aggiunge Giubileo, che «esiste già una piattaforma di incontro domanda e offerta di lavoro nazionale, alla quale vanno aggiunte le decine di piattaforme pubbliche regionali». Per inciso, la piattaforma nazionale sarebbe quella dell’Anpal di Mimmo Parisi. Il problema fondamentale per i beneficiari del reddito di cittadinanza non è quindi la mancanza di una “app”, quanto il fatto che si tratta «di un target particolarmente svantaggiato: oltre due terzi sono over 35, con un basso livello di istruzione, demotivati e disoccupati di lungo periodo, la maggior parte dei quali si trova nel Mezzogiorno mentre le opportunità di lavoro sono in prevalenza dislocate nel Nord Italia». Per quanto impietosa, l’analisi non fa una grinza. E se si vuole cambiare passo non basta certo la bacchetta magica di una “app”. Bisogna ripensare il reddito di cittadinanza, per esempio sul modello del Regno Unito, dove il sussidio non cessa del tutto quando il percettore trova un lavoro a basso reddito. Bisogna prevedere un sostegno rilevante alla mobilità occupazionale, per incentivare i beneficiari del reddito di cittadinanza a trasferirsi dove il lavoro c’è. Bisogna poi pensare seriamente di impiegare i destinatari del sussidio in lavori di pubblica utilità come forma, afferma Giubileo, «di inserimento sociale dopo anni di inattività». Anche questo potrebbe aiutare a rimettere in moto energie mentali, forse più importanti di quelle fisiche. Il fatto è, conclude con amarezza il sociologo, che a 18 mesi dall’introduzione del reddito di cittadinanza soltanto 400 Comuni su circa 8 mila hanno «definito regolamenti per l’impiego dei beneficiari». Il cinque per cento.