Affari&Finanza, 19 ottobre 2020
Gli italiani fanno scorta di
Racconta il Dizionario storico della Svizzera che durante i lunghi anni della Guerra Fredda la Confederazione promuoveva campagne informative periodiche per spingere i cittadini ad accumulare quelle che venivano chiamate “scorte d’emergenza”, o in modo più evocativo “saggia previdenza”. Tutti erano invitati a preservare in casa conserve di carne e pesce, formaggio, biscotti, zucchero e cioccolato. Nell’Italia delle crisi finanziarie che schiaffeggiano l’economia ormai da dodici anni, alle quali da febbraio si è aggiunta la pandemia, le famiglie stanno reagendo con una forma tutta loro di “previdenza”, che non è detto sia “saggia” ma risponde certamente al timore di poter andare incontro a difficoltà: accumulano risparmi. Alcuni dati. Tra fine 2019 e il luglio scorso, i depositi delle famiglie sui conti correnti delle banche italiane sono aumentati di oltre 36 miliardi di euro, raggiungendo la stratosferica cifra di 1.136 miliardi. Mettere i soldi sul conto, una modalità che congela i risparmi e non rende nulla, è una tendenza che prosegue ormai da anni, e che non si è arrestata neppure quando il lockdown e la recessione hanno falcidiato i redditi di intere categorie di lavoratori, costringendo molti a toccare quanto avevano messo da parte. Fatto sta che nella “media del pollo” fra chi si è impoverito e chi ha preferito risparmiare – o vi è stato costretto – hanno prevalso i secondi, con i depositi in banca delle famiglie che sono saliti di quasi 17 miliardi anche da marzo a luglio.
Il parere degli esperti
Elisa Coletti, responsabile della Banking Research alla Direzione studi e ricerche di Intesa Sanpaolo, osserva che «il calo dei consumi nei primi due trimestri di quest’anno è stato più forte della riduzione del reddito disponibile e questo ha causato un aumento della propensione al risparmio che in Italia è arrivata nel secondo trimestre fino al 18,6%, secondo i dati Istat». Si tratta di un livello molto più alto dell’intero triennio precedente, quando era attorno all’8%, e che riflette quando avvenuto in tutta l’Eurozona dove, aggiunge Coletti, sempre nel secondo trimestre «la propensione al risparmio è stata del 24%». Marcello Messori, professore alla Luiss e uno dei massimi esperti italiani del sistema finanziario, ritiene che i dati sull’aumento della ricchezza finanziaria in un periodo così travagliato rendano evidenti diversi fenomeni. Innanzitutto «la crescente divaricazione fra quanti hanno continuato a percepire redditi medio-alti e a risparmiare e quanti avevano già redditi bassi e hanno subito ulteriori perdite di reddito: la ricchezza finanziaria totale, concentrata nelle mani dei primi, non ha risentito dell’impoverimento dei secondi». Per giunta l’incertezza, la riduzione dei consumi e la conseguente caduta della domanda «hanno indotto il crollo degli investimenti da parte delle imprese private, che hanno così accantonato risorse finanziarie». A ciò si aggiunga che «l’aumentata ricchezza è stata in parte impiegata per acquistare attività finanziarie con rendimenti non negativi – da cui la sorprendente tenuta degli investimenti azionari – e in larga parte in forma liquida». Qui si apre la grande questione di come il sistema italiano non riesca a convogliare questa ricchezza nel finanziamento dell’economia reale. Non solo i depositi in banca ma anche gli investimenti finanziari delle famiglie in questo 2020 così travagliato sono infatti aumentati. I fondi comuni tra gennaio e agosto hanno raccolto in Italia risorse nette per 8,6 miliardi, mentre nei primi otto mesi del 2019 i disinvestimenti avevano superato le sottoscrizioni per 984 milioni (stime Assogestioni). E ancora: sempre da gennaio ad agosto la raccolta netta su strumenti finanziari, assicurativi e previdenziali intermediati dalle banche e dalle società d’investimento che prestano attività di consulenza (la loro associazione si chiama Assoreti) ha superato i 21 miliardi di euro, rispetto ai 13,4 miliardi dello stesso periodo di un anno prima. Analizzati nel dettaglio, i dati mostrano che gran parte di questi investimenti è andata a premiare strumenti di liquidità oppure i mercati azionari internazionali, Wall Street in testa. Sono numeri che non stupiscono, vista l’incertezza da una parte, e dall’altra il volo delle quotazioni dei colossi digitali. Va detto che gli addetti ai lavori vedono molto di buono nel comportamento tenuto dai risparmiatori nella tempesta. Con il crollo delle quotazioni delle Borse tra fine febbraio e inizio marzo «ci si attendeva che l’impatto negativo sarebbe stato più prolungato, invece dopo che in marzo la raccolta netta dei fondi era risultata negativa c’è stata un’immediata ripresa», dice Elisa Coletti, osservando che «mentre in passato si era registrato un impatto persistente degli eventi negativi sulle scelte d’investimento, quest’anno non si è verificato il cosiddetto “effetto memoria": i risparmiatori hanno visto che le perdite dei fondi erano contenute e hanno mantenuto la posizione». Se i numeri di Assoreti appaiono mortificanti per l’Italia – tra gennaio e agosto i fondi aperti azionari italiani hanno visto un deflusso netto di 223 milioni, quelli esteri azionari una raccolta netta di 4,2 miliardi – se ci si toglie il cappello tricolore e si indossa quello dell’Europa i segnali positivi per l’economia reale non mancano: «L’andamento del 2020 è stato a due facce. C’è stato un primo picco di incertezza con l’acuirsi della crisi, superato il quale si è verificato un forte recupero che ha coinciso con flussi di raccolta e ripresa dei mercati. Lo vediamo in Italia e anche in Europa, dove si vede bene che nei primi mesi dell’anno c’è stata un’allocazione su asset class non rischiose, ovvero monetari e governativi, mentre nel secondo trimestre gli investimenti sono andati verso strumenti finanziari più rischiosi, come l’azionario», dice Claudio Bocci, partner di Prometeia, che si sofferma su un aspetto particolare: «Per la prima volta dall’inizio del 2018 si sono arrestati i deflussi dall’azionario europeo e questo potrebbe essere l’inizio di un’inversione di tendenza. Da quel momento in poi, infatti, i deflussi complessivi dal mercato azionario europeo erano stati pari a 150 miliardi, tutti a favore di azioni globali e americane».
Il blocco del sistema produttivo
Resta il fatto, però, che gran parte del sistema produttivo italiano fatica a connettersi con i flussi degli investimenti. Anche per le banche, osserva Marcello Messori, accumulare depositi è un problema: «Per il settore nel suo insieme i depositi diventano riserve presso la Bce, che danno interessi negativi». La concentrazione poi di buona parte della ricchezza in impieghi liquidi fa il resto: «La totale eterogeneità tra gli investimenti finanziari delle famiglie e le richieste di finanziamento delle nostre imprese ostacola l’attuazione delle iniziative di medio-lungo periodo che sarebbero essenziali per lo sviluppo», dice l’economista. Così in questi mesi chi ha sostenuto lo sforzo maggiore sono state proprio le banche, grazie anche alle garanzie pubbliche predisposte dal governo. «Un robusto sviluppo richiederebbe, invece, che una quota maggiore delle imprese italiane riesca ad accedere ai mercati dei capitali e ai prestiti non bancari», dice Messori. Una svolta che per essere compiuta richiede molto lavoro. L’economista della Luiss indica due obiettivi che sarebbe necessario perseguire. Il primo è favorire il finanziamento delle imprese da parte di investitori istituzionali come i fondi pensione e le assicurazioni vita, che avrebbero bisogno di regole «meno strette» per sottoscrivere obbligazioni o azioni emesse da attività di media dimensione. Il secondo è di superare uno dei principali ostacoli che allontanano le piccole imprese dai mercati finanziari, ossia la coincidenza fra chi ha la proprietà e chi gestisce l’impresa: «Gli strumenti per finanziare le imprese anche piccole ormai esistono, e andrebbero al massimo potenziati o resi più efficaci. Ora più che mai, però, è il momento di darsi da fare».