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 2020  ottobre 19 Lunedì calendario

Biografia di Bret Easton Ellis

«A nessuno piace la persona giusta» mi disse Bret Easton Ellis al termine di una cena in un ristorante alla moda di Los Angeles, dove per tutta la serata si era lamentato che gli sembrava presuntuoso e non troppo buono. In quel momento non sapevo che stesse citando Le regole dell’attrazione, e rimasi colpito dal tono amaro. A cena mi aveva parlato a lungo del nuovo compagno, e prima che facessi una facile deduzione si affrettò a dire che era una persona adorabile, e lo amava. Ci eravamo incontrati per discutere la sua partecipazione alla Festa del Cinema dove poi venne a parlare dei suoi film preferiti, e la sua descrizione di Manhattan rimane uno dei momenti più emozionanti che abbia vissuto negli incontri della Festa. Mi chiese di mostrare l’incipit, nel quale il personaggio interpretato da Woody Allen dichiara il proprio sconfinato amore per la metropoli. «Condivido ogni parola di quella sequenza: è uno degli inizi più belli della storia del cinema, e quando termina sei convinto che il film non potrà essere all’altezza di quei primi minuti. Invece rimane bellissimo sino alla fine, ugualmente indimenticabile, e ti regala molte sequenze commoventi, poetiche ed esilaranti».
In quella occasione Bret prese pubblicamente la difesa di Woody Allen: di questi tempi, specie per un americano, è una prova di coraggio e libertà intellettuale. Era arrivato a Roma preceduto dalla fama di persona sulfurea e inaffidabile, ma sin dal primo giorno si rivelò affabile, professionale, divertente e complice. Da appassionato di cinema era curioso di vedere dall’interno i meccanismi che governano un festival, e rimase ammaliato dalla bellezza di Roma.
Ci eravamo conosciuti anni prima grazie a Donna Tartt e a Jay McInerney, con i quali aveva studiato a Bennington: del gruppo facevano parte anche Jonathan Lethem, Jill Eisenstadt e Tama Janovitz, e quando debuttarono vennero definiti il Brat Pack della letteratura. Fu lui a sfondare per primo con Meno di zero, scritto a soli 21 anni mentre era ancora uno studente universitario: divenne improvvisamente ricco e famoso, e Donna Tartt ricorda che da un giorno all’altro si presentò al college con una macchina lussuosissima. Qualche tempo dopo, quando si trasferirono tutti a New York, instaurò con Jay McInerney un sodalizio incentrato su uscite notturne a dir poco estreme: vennero soprannominati i Toxic Twins. Se Donna Tartt ambientò il suo primo romanzo Dio di illusioni in un college molto simile a Bennington, i Toxic Twins trovarono nella metropoli che li aveva accolti la fonte di ispirazione per Le mille luci di New York e American Psycho. Entrambi i libri esprimono un pesante giudizio morale sui personaggi e sul mondo nel quale essi vivono, tuttavia contribuirono a cementare il mito della New York degli anni 80, non diversamente da quanto è avvenuto con La dolce vita rispetto a Roma negli anni 60.
Oggi è tornato a vivere a Los Angeles, la città nella quale è nato, e degli anni newyorkesi conserva un ricordo ambivalente: «Erano anni divertentissimi, indimenticabili, esaltanti e inquietanti». Ha compiuto da poco 56 anni e ha scritto sette romanzi e una raccolta di saggi, ma ha ben poco che lo accomuna allo scrittore tipo: parla raramente di letteratura, mentre si diverte immensamente a discutere di cinema, spesso con posizioni viscerali ed estremamente polemiche. «Io sono uno scrittore satirico», ripete le poche volte che riesco a trascinarlo sul campo della letteratura, «ed è quella la chiave di lettura dei miei libri, che invece generano costantemente scandalo».
Per quanto brutale e con passaggi di una violenza insostenibile, American Psycho è un libro di straordinaria importanza, e insieme con il Falò delle vanità di Tom Wolfe il più profondo e illuminante sulla New York degli anni 80. Quando Bret ne parla, si diverte ad alzare il tono della provocazione: «Non c’è alcuna differenza tra un agente di borsa di Wall Street e un assassino: io ho solo portato alle estreme conseguenze questa semplice idea della quale sono convinto». Subito dopo, però, rivela qualcos’altro, non meno inquietante: «Il libro nasce anche dalla solitudine, la disperazione e l’odio per me stesso che ho provato in quel periodo». In una intervista rivelò che il personaggio del finanziere assassino era ispirato a suo padre, ma in un’intervista successiva ritrattò tutto dicendo che «il libro parla di me». Il padre in questione, che si chiamava Robert, era un agente immobiliare, che divorziò dalla madre Dale quando lui aveva diciott’anni. In un’altra intervista, non smentita, racconta che era un uomo violento, e ogni volta che ho provato a parlargliene ha cambiato discorso. «Chiunque abbia successo», mi disse una volta, «ha avuto problemi con il padre a prescindere dal fatto che abbia sfondato nello sport, negli affari o nello spettacolo».
Nonostante il tono perennemente ironico e disincantato, a volta affiora una grande angoscia, che sembra pronta a esplodere in maniera inaspettata: probabilmente il dolore più grande è stato la morte del compagno Michael Wade Kaplan, che cercò di esorcizzare concentrandosi con tutte le proprie forze a scrivere Lunar Park: il libro è dedicato a lui, ma anche al padre Robert. In quello stesso periodo cominciò a essere ossessionato dal suicidio della coppia di artisti Jeremy Blake e Theresa Duncan: «Mi sono sempre interrogato sul senso di vuoto e di solitudine che dovevano provare due giovani di grande successo». Su quella vicenda scrisse una sceneggiatura insieme con Gus Van Sant, ma il progetto abortì per mancanza di finanziamenti. Ancora oggi ne parla con grande passione rivelando che avevano in mente di scritturare Naomi Watts e Ryan Gosling, e che poi, quando Van Sant passò la mano, il progetto passò a Gaspar Noè. A oggi il film non è stato prodotto, e ritiene che possa essere la sua migliore collaborazione con il mondo del cinema.
Bret ama in eguale misura il rock: definisce Bruce Springsteen il suo eroe, ma ha intitolato due libri ispirandosi a Elvis Costello: Meno di zero e Imperial Bedroom. Condanna ogni distinzione tra highbrow e lowbrow, la cultura alta e quella popolare, e l’ho visto apprezzare di gusto la battuta della Signora della porta accanto di Truffaut: «Ascolto solo canzoni perché dicono la verità. Più sono stupide, più sono vere». Rifiuta di essere definito gay e sostiene che «per motivi artistici» è di volta in volta omosessuale, bisessuale o eterosessuale. Poi aggiunge: «Se il lettore avesse un’idea precisa della mia sessualità interpreterebbe in maniera diversa ad esempio American Psycho, e anche per questo ci tengo al fatto che rimanga indeterminata», A Robert Coleman, che cercava di avere una risposta precisa, replicò «In ogni intervista darò una risposta diversa a seconda dell’umore in cui mi trovo», e cita una battuta memorabile del libro, «ho fatto l’amore con lei perché sono innamorato di te». Lotta con forza contro ogni deriva del politicamente corretto, e riesce sempre a lasciare all’interlocutore qualcosa che superi la mera provocazione. Una battuta raggelante del suo libro più famoso dice «Mi sento di merda, ma è bellissimo»: la pronuncia cadenzando le parole, e fissandoti provocatoriamente negli occhi, per vedere la tua reazione. Poi chiede: «Il male è quello che sei o quello che fai?».