La Stampa, 19 ottobre 2020
La muraglia verde in Africa è un sogno impossibile
C’è un momento in cui i sogni svaporano e diventano soltanto miraggi. Accade quando le ombre spariscono e non c’ è più nessuna gara di intensità tra sabbia e cielo. Il progetto africano della Muraglia verde di quindici chilometri di larghezza che doveva fermare il deserto e far rinascere ottomila chilometri di terre, di uomini, di vite tra il Senegal e Gibuti si è sfogliato così: piano piano, anno dopo anno, insensibilmente. La natura ha talvolta nei confronti dei disegni dell’uomo ostentazioni cupe e ostili. Il deserto, come il mare, è manifesto e insieme segreto. Distrugge e copre. L’Inghiottire è il suo pudore. Il deserto è ipocrita: uccide, ruba, nasconde, ignora. E vince.
La grande opera panafricana fu annunciata quindici anni fa, avviata lentamente due anni dopo: «Una follia», la definirono gli stessi ideatori, il presidente senegalese Wade e il nigeriano Obasanjo. Far nascere dal nulla cento milioni di ettari di foresta e di colture dall’oceano al Mar Rosso. Un continente si metteva alla prova: non solo imprigionare il deserto ma anche bonificarlo; sfida scientifica, tecnica, umana, provare che i figli dell’Africa non assistevano impotenti alla sua distruzione. In un continente in cui tutto è su misura angosciosamente effusiva, fiumi, savane, deserti, siccità, alluvioni, era un’impronta dell’uomo. Forte, risolutiva, esaltante. Era rodere le fondamenta del mondo. È vero: forse c’era già il peccato della superbia in quella follia, come i prometeici progetti staliniani di invertire i corsi dei fiumi, di inondare i deserti.
Ecco il bilancio appena stilato dalla convenzione delle Nazioni unite per la lotta contro la desertificazione, triste come lo sono tutti i risvegli dai miraggi: dei cento milioni di ettari verdi che dovevano formare, entro il 2030, la trincea attraverso undici paesi ne sono stati realizzati solamente quattro, brevi righe di qualche migliaio di ettari annegati qua e là nell’orma scura del deserto che avanza, melanconia faticosa delle terre che sono ricche del loro male. Nessun astronauta può scorgerli, come si era proclamato con arroganza 15 anni fa, dallo spazio, come la Grande muraglia cinese: l’ottava meraviglia del mondo sembra, come le altre sette, già monumento o rimpianto invisibile.
È una storia esemplare, sì. Dell’Africa continente estremo che condensa desiderio e realtà, proiezione e distillato di una Storia dura, falsificazione, memoria, creazione. Ma anche dei limiti di un pensiero ecologista che promette palingenesi collettive, universali, l’obbligo di salvarci insieme o perire insieme, ma poi si diluisce e si perde via via che si allontana dai luoghi in cui è nato, l’occidente, dai convegni sul clima, dalle retoriche giornate in difesa del pianeta.
L’ecologia praticata
Gli africani del Sahel l’ecologia non la pensano, la praticano: da secoli con l’arte quotidiana del sopravvivere, del salvare ogni goccia d’acqua contro il sole, l’erosione, il vento, la pressione demografica. La grande Muraglia verde era una occasione. Perché l’obiettivo più ambizioso e vitale consisteva nel far sì che decine di milioni di persone lungo questi ottomila chilometri trovassero uno scoglio su cui costruire una vita. Il muro verde doveva innescare attività agricole e pastorali redditizie, creare occupazione, cancellare le ragioni per fuggire e farsi migranti. Scorriamo l’elenco dei paesi inseriti nella Muraglia: Senegal, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Nigeria, Niger, Ciad, Sudan, Eritrea, Etiopia, Gibuti. Vi leggete la mappa della Migrazione, la geografia umana degli sbarchi sulle coste d’Europa. Era l’esempio perfetto dell’aiutiamoli a casa loro, vangelo della buona volontà e interessata ipocrisia degli xenofobi.
Dopo quindici anni invece di quella foresta infinita ci sono ottomila chilometri di carestie e guerriglie fanatiche a cui la desolazione dei deserti offre reclute e protezione. La pressione demografica moltiplica le tensioni tribali, tra contadini e allevatori nomadi, per conservare le terre utili. Abbiamo sprecato il tempo e non lo riavremo.
Dodici anni fa, nord del Senegal, la regione del Ferlo, terra color ocra, nuvole accaldate, erbe moribonde, sfiancate dalle capre. Nel resto del Paese già piove, qui devono attendere la fine di luglio. Forse per qualche goccia. I villaggi che attraverso sono formicai vibranti di gente e di passione. È l’avvio della Muraglia. Arrivano dalla capitale in visita quasi quotidiana i politici e gli alti funzionari, a Tesserekè credevano di sognare quando da un’auto è sceso il presidente, davanti alle telecamere ha piantato anche lui un alberello di pochi centimetri. E poi agronomi, botanici, geologi, che studiano, suggeriscono, dirigono. E gli studenti venuti anche loro dalla città «a piantare gli alberi».
I vecchi guardano, in attesa, come guerrieri stancamente sconfitti dalla lenta distrazione della storia. Con voce piana si raccontano l’un l’altro le siccità attorno a cui qui raggomitolano lo scorrere del tempo: quella degli anni settanta, e poi di nuovo dopo dieci anni, ritmiche e implacabili come una maledizione. Attendono questa foresta illusionistica che hanno loro promesso e intanto ricordano quando perfino le acacie erano diventate stecchi morti flagellati dal vento arido che le spolpava, via via, delle foglie, dei rami, della corteccia. Il più vecchio sogna a occhi aperti: ‘’dicono che un giorno qui raccoglieremo di nuovo i frutti del mango… mio nonno quando ero bambino raccontava come era dolce la polpa…».
Penso che un miracolo la grande Muraglia l’ha già prodotto. Il novantanove per cento degli abitanti di questa regione non aveva mai visto un medico. Ora ne è arrivato uno.
Ecco la Muraglia che nasce: è un lunghissimo solco. Una fila di donne, chine a terra o in ginocchio, sistema gli alberelli, stecchi alti non più di venti centimetri. Acacie, resistenti e produttrici di gomma arabica. Alcuni soldati porgono loro gli arbusti. Non dimentico il gesto dolce, raccolto con cui le donne maneggiavano la pianticella, le stringevano attorno, con forza e delicatezza insieme, la terra perché offrisse protezione e nutrimento. Potevi, in quei semplici gesti, sentire l’innocente miracolo di tutte le cose farsi sostanza e realtà, solido, silenzioso, la natura, il deserto, le case e tutto il resto, tutto ciò che è vivo.
Piantare gli alberi non bastava, bisognava difenderli dagli animali con recinzioni, e dal fuoco con sbarramenti antiincendio. In quei luoghi la Muraglia è cresciuta, esiste, si allarga. Mi hanno raccontato con emozione, che hanno raccolto i limoni. Il Senegal è il Paese vetrina del progetto, con l’Etiopia quello che più si è impegnato. Altri sono rimasti indietro: la frontiera è stata erosa dalla siccità, dagli animali, dalla incuria, è diventata legna da ardere e burocrazia. Gli africani accusano di indifferenza i Paesi ricchi ricordando che avevano promesso al vertice di Parigi sul clima 4 miliardi di dollari mentre ne sono stati erogati solo 150. La Banca mondiale ribatte che il contributo in realtà è stato di 870 milioni di dollari. Ma sono stati dirottati dai singoli Stati su altri progetti, aggirando la "Agenzia panafricana per la Muraglia verde’’. Nessuno ha fatto da guida in tanta grandezza.
Del sogno restano piccoli lembi. E uno splendido, patinato documentario The great green wall’. Viene il dubbio che tutto fosse davvero solo un grande show, fascinoso e intossicante. Secondo la Fao il deserto inghiotte ogni anno due milioni di ettari delle zone verdi saheliane.