La Lettura, 18 ottobre 2020
12QQAFA11 Intervista a Jeffery Deaver
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Jeffery Deaver ha passato gli ultimi trent’anni della sua vita seduto in una stanza buia con un solo obiettivo: rendere felici i lettori. Scrive tra le otto e le dieci ore al giorno. Quest’anno, complice l’emergenza sanitaria che lo costretto nella sua casa del North Carolina, ha portato a termine due romanzi e due storie brevi. «Il mercato editoriale è crudele. Oggi, per uno scrittore di thriller come me si tratta di adattare il proprio stile a quello delle serie tv: deve essere semplice e immediato», spiega Deaver a «la Lettura» in occasione dell’uscita italiana del nuovo libro, Verità imperfette (Rizzoli).
Deaver (settant’anni compiuti il 6 maggio) è un peso massimo della letteratura con 50 milioni di copie vendute. Uno dei suoi personaggi più riusciti è il criminologo tetraplegico Lincoln Rhyme, comparso per la prima volta nel bestseller Il collezionista di ossa (1997), celebre anche per avere avuto il volto di Denzel Washington nell’omonima versione cinematografica di Phillip Noyce.
Il protagonista di Verità imperfette è il cacciatore di ricompense Colter Shaw, già apparso in Il gioco del mai (2019) e Gli Eletti (2020), entrambi Rizzoli. Il libro è diviso in due parti, i due nuovi casi di Shaw. Nel primo deve aiutare un uomo a ritrovare la moglie, una pittrice, sparita dopo tredici mesi di matrimonio; nel secondo, mentre è sulle tracce di una ragazza di diciannove anni scappata da casa, viene coinvolto nelle trattative per la liberazione di un ostaggio.
La «semplice arte del delitto», così come la intendeva il maestro Raymond Chandler, si fonda su un lento processo di distillazione. Deaver, in questo senso, è un discepolo dell’autore del Grande sonno: nella sua visione ogni nodo della storia deve essere sciolto alla fine, in un crescendo di suspense. Il bene vince sempre perché il lettore deve sentirsi a proprio agio. La violenza non è mai gratuita. Come in un film del suo eroe Alfred Hitchcock, l’omicidio non è cruento, compare lontano dagli occhi di chi guarda. Per risolvere i casi, Jeffery Deaver, cresciuto nel Midwest, ci chiede un piccolo sforzo di immaginazione.
Le avventure del suo nuovo libro sono ambientate in un’America suburbana e rurale, tra l’Indiana e il Kansas. Che Paese voleva raccontare?
«L’America è divisa a metà: mondo urbano contro mondo rurale. La città fa da sfondo ai libri di Lincoln Rhyme; per Il gioco del mai ho scelto la Silicon Valley e San Francisco. Una metropoli è una grande fonte di ispirazione, posso attingere all’ampio universo della criminalità e a una vasta schiera di paranoici. Ci sono i ricchissimi e i poverissimi. L’ambientazione rurale è molto più gotica, inquietante. Nei piccoli paesi c’è una lunga tradizione di sospetto, soprattutto verso chi viene da fuori. Ogni ambientazione è al servizio della storia. L’America rurale è perfetta per queste avventure di Colter».
Le storie di questo libro sono molto più brevi rispetto alle altre due avventure. Ha puntato sull’essenzialità?
«Sono uno scrittore che guarda anche al mercato editoriale. La parte dell’uomo d’affari ogni tanto prende il sopravvento. Attraverso Colter Shaw mi sono reinventato, ho trovato un nuovo stile, che definisco streaming, proprio come lo streaming televisivo. Scrivo libri che hanno molto in comune con i ritmi e i linguaggi delle serie tv: capitoli e paragrafi brevi, dialoghi essenziali, più centrati sull’azione. Cerco di catturare l’audience, di intrattenerla, di portarla dalla mia parte. Negli Stati Uniti, a differenza dell’Italia, queste due avventure di Colter Shaw sono uscite prima del secondo libro della serie. Nella mia mente rappresentavano un assaggio del nuovo personaggio, era un libro pensato per conquistare il pubblico e farlo affezionare a questo solitario cacciatore di ricompense».
È cambiato Colter Shaw?
«È un personaggio molto costante, anche perché ogni capitolo della serie è strettamente consequenziale a quello precedente. Tutta l’azione si svolge in un breve lasso di tempo. Ho appena finito un nuovo romanzo con protagonista Shaw, intitolato The Final Twist. Uscirà la prossima primavera. Il primo libro comincia il 7 giugno, il secondo prende avvio l’11, il terzo è ambientato nella settimana del 25 giugno. Le due storie di Verità imperfette cominciano il 30 agosto. Colter Shaw è sempre lo stesso, è un cavaliere in cerca di una missione da portare a termine».
Il finale di «Verità imperfette» rimane aperto...
«Ho ricevuto email da lettori che mi chiedevano se ci sarà un sequel. Vorrei che provassero loro a risolvere il caso, vorrei che fossero loro a dirmi come andrà a finire. Una volta una lettrice mi ha chiesto se Colter Shaw fosse basato su una persona reale perché le avrebbe fatto piacere procurarsi un appuntamento romantico... A modo suo, è affascinante».
Leale e onesto. Dice sempre che non fa questo lavoro per soldi. Di che cosa è in cerca, allora, Colter Shaw?
«È irrequieto, corre da una parta all’altra dell’America con il suo camper Cambria Winnebago lungo nove metri per scoprire nuovi luoghi, per vivere nuove avventure. Da ragazzo, quando leggevo Il signore degli anelli, Agatha Christie, Raymond Chandler o i libri di James Bond, mi piaceva avventurarmi in luoghi che non conoscevo. È anche per questo motivo che ho trasmesso la passione del viaggio a Colter Shaw. Mi sono ricordato di quando anch’io ero un lettore».
Shaw è figlio di un «survivalista». È da lì che nasce la sua irrequietezza?
«In America, dall’epoca della guerra fredda, ci sono gruppi di survivalisti, persone che vivono preparandosi a un’emergenza, a crisi sociali o politiche (to survive significa “sopravvivere”, ndr). Tra questi, ci sono fanatici che non si fidano del governo perché pensano che trami contro di loro. Shaw è figlio di un survivalista, è cresciuto senza tv né internet, all’aria aperta. Passa la vita a mettere in pratica gli insegnamenti del padre».
Ha sempre ripetuto che la violenza, soprattutto in un thriller, ha un limite.
«Da amante di Hitchcock metto in pratica la sua dottrina. Prenda Psycho, considerato il suo film più cruento: non vediamo il coltello entrare nella carne di Janet Leigh, nella scena della doccia. Hitchcock ce lo fa immaginare. Allo stesso modo, la violenza nei miei libri rimane fuori dall’inquadratura. Non ci sono torture né autopsie, non ferisco bambini né animali. Non ci sono stupri. È facile raccontare un massacro attraverso una scena violenta. La sfida è creare suspense».
Siamo alla vigilia delle elezioni americane. Qui la suspense è altissima, come in uno dei suoi thriller...
«Non ho nessun rispetto per Trump, per un presidente che disprezza le istituzioni. Lo stesso pensano molti amici repubblicani. La tensione è alta, non ho mai provato così tanta ansia. Eppure ho vissuto la crisi dei missili di Cuba e la minaccia nucleare durante la guerra fredda. Per fortuna, in questo periodo di reclusione forzata posso trovare conforto nella scrittura. Ho finito anche una nuova avventura di Lincoln Rhyme. Il lockdown non mi ha creato particolari problemi perché parte della mia vita l’ho passata in una stanza buia a scrivere».
Quali sono i suoi scrittori contemporanei preferiti?
«Tanti italiani: Michele Giuttari, Gianrico Carofiglio, Carlo Lucarelli, Roberto Costantini, Giorgio Faletti. Amo la serie di Montalbano di Andrea Camilleri. Tra gli americani: Michael Connelly e Dennis Lehane su tutti».
Può anticipare qualcosa della prossima avventura di Colter Shaw?
«Shaw si trova tra le mani una lettera firmata da suo padre, una lettera che contiene verità nascoste che possono fare luce sulla sua morte e sulla scomparsa di altre persone a San Francisco. Dallo Stato di Washington, dove lo avevamo lasciato alla fine di Gli Eletti, si mette in viaggio per la California. Si troverà presto coinvolto in una caccia al tesoro pericolosa. È tutto quello che posso rivelare».