La Lettura, 18 ottobre 2020
La vera guerra fredda
Le analogie storiche sono utili quando aiutano a capire la realtà, ma devono essere maneggiate con cura. A volte, infatti, eventi storici diversi sono assimilati solo perché condividono alcune superficiali caratteristiche; in quei casi, le analogie possono diventare fuorvianti, complicare o addirittura impedire la comprensione della realtà. L’abbaglio è spesso dovuto a una visione bidimensionale della storia: come quando, per esempio, si è tentati di catalogare tutti gli imperi sotto un’unica categoria interpretativa, che si tratti dell’impero persiano achemenide, di quello di Gengis Khan o di quello americano; oppure quando si vorrebbe sovrapporre la democrazia moderna alla democrazia ateniese di 2.500 anni fa.
Un esempio di analogia storica fuorviante è la diffusa abitudine di riferirsi alle crescenti tensioni tra gli Stati Uniti e la Cina rispolverando la formula della «guerra fredda», che, storicamente, si riferisce all’insieme delle relazioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica tra il 1947 e il 1989. Anche in questo caso, la tentazione dell’appiattimento bidimensionale è favorita dall’apparente facilità della similitudine: da una parte gli Stati Uniti, prima potenza mondiale, ora come allora; dall’altra, il loro rivale principale, o addirittura «solo» rivale, che per di più si definisce «comunista», ora come allora: ergo la guerra fredda, ora come allora. Cui si appone l’aggettivo «nuova» per non confonderla con quella vecchia.
La storia però, come ogni altro aspetto delle relazioni umane, è tridimensionale, non foss’altro che per quella banale ragione che ha ispirato la più celebre frase attribuita a Eraclito: tutto scorre, non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume. Il mondo non è più quello che era all’epoca della «vecchia» guerra fredda; gli Stati Uniti sono sì ancora la prima potenza economica, politica e militare, ma il loro peso e il loro ruolo sono cambiati drasticamente (anche volendo fare astrazione dagli ultimi quattro, disastrosi, anni); e – differenza cruciale – la Cina non è l’Unione Sovietica.
L’uso dell’analogia con la «vecchia» guerra fredda è relativamente recente: risale grossomodo all’inizio della campagna dell’attuale inquilino della Casa Bianca, Donald Trump, intesa a trovare un colpevole esterno per il declino relativo del suo Paese puntando il dito sul colossale disavanzo commerciale con la Cina. Che si trattasse di un (peraltro fortunato) espediente elettorale era chiaro dall’inizio, ma oggi ne abbiamo la prova: nonostante tutte le gesticolazioni protezioniste, il deficit commerciale degli Stati Uniti nella prima metà del 2020 è stato del 6,5 per cento superiore rispetto allo stesso periodo del 2016, malgrado il calo del 15 per cento dei flussi commerciali dovuto alla pandemia; e il deficit con la Cina, nello specifico, è rimasto sostanzialmente invariato, da 347 miliardi di dollari nel 2016 a 345 nel 2019 («Financial Times», 1° settembre 2020).
Il «Financial Times» fa notare che l’argomento deficit commerciale è prudentemente sparito dai temi di campagna elettorale dell’attuale presidente, ma non la retorica anticinese: ora sono il coronavirus, il 5G, Huawei, gli uiguri musulmani del Xinjiang, le isole del Mar cinese meridionale che sembrano sostanziare l’uso della formula di «nuova guerra fredda». Nonché, sull’altro fronte, una Cina sempre più «brezneviana».
Si noti che quando la rivalità sistemica tra gli Stati Uniti declinanti e la Cina emergente cominciò a essere evidente, molti specialisti avanzarono un’altra analogia storica, assai più appropriata anche se, anch’essa, non del tutto calzante: quella con la rivalità crescente, fin dagli ultimi anni dell’Ottocento, tra un Regno Unito declinante e una Germania emergente (il sottinteso era inquietante, perché quella rivalità non sfociò in una guerra fredda, ma in una guerra calda, nel 1914). Si trattava comunque anche in quel caso di un paragone non del tutto calzante, perché la potenza emergente più minacciosa per il Regno Unito all’epoca non era la Germania, ma gli Stati Uniti: dopo avere sottratto ai britannici il primato sul fronte economico e produttivo, gli americani finiranno per scalzarla su tutti gli altri i fronti – finanziario, militare, geostrategico, politico, culturale – senza mai farle la guerra, anzi, vezzeggiandola con l’illusione di una special relationship.
La formula della special relationship ha mascherato la vera natura della rivalità tra Stati Uniti e Gran Bretagna (che Henry Kissinger definisce «la più importante minaccia agli interessi americani nel XIX secolo»); allo stesso modo, la formula della guerra fredda ha mascherato la vera natura della rivalità tra Stati Uniti e Unione Sovietica nella seconda metà del Novecento, poiché sottintendeva che le due «superpotenze», come erano chiamate, avessero peso e dimensioni assimilabili. In realtà, per le sue deficienze strutturali, l’Urss non è mai stata, né avrebbe mai potuto essere, una «superpotenza» in grado di rappresentare una minaccia per gli Stati Uniti. Lo stesso «inventore» della formula del containment (cioè l’idea che si dovesse arginare l’espansionismo sovietico), George Kennan, ne era perfettamente consapevole quando scriveva, nel suo celebre articolo-analisi del 1947, che «la Russia rimarrà economicamente una nazione vulnerabile e, in un certo senso, impotente». Certo, non era vulnerabile e impotente dal punto di vista militare (anche se, nel 1947, lo era), ma la sua forza armata è stata tanto un fardello quanto un vantaggio: viste le sue scarse risorse, essa consentiva la sopravvivenza del regime, ma era al tempo stesso la prima minaccia alla sopravvivenza del regime stesso – come si è potuto verificare al termine della corsa agli armamenti degli anni Ottanta.
Kennan, evidentemente, lo sapeva, perché il containment — che sarà la politica americana nei confronti dell’Urss lungo tutta la guerra fredda – si basava proprio sul presupposto che, opportunamente contenuto, il regime sovietico avrebbe prima o poi finito per crollare su sé stesso, trascinato dalle sue debolezze strutturali.
Nessuna di queste condizioni si applica alla Cina. Nel suo articolo The Geographical Pivot of History, del 1904, il britannico Halford Mackinder faceva della Russia il «perno geografico» del mondo, chiamato in seguito addirittura Heartland, il cuore della Terra. Secondo Mackinder, per semplificare al massimo, se la Germania, seconda potenza industriale all’epoca, fosse riuscita a sfruttare le immense risorse potenziali della Russia (che i russi non riuscivano a valorizzare per cronica carenza di capitali), il mondo intero sarebbe finito sotto il suo controllo. Nel 1942, il geografo olandese naturalizzato americano Nicholas Spykman «adottò» la teoria di Mackinder dal punto di vista degli Stati Uniti, diventati nel frattempo prima potenza mondiale, aggiungendo al rischio di un possibile sfruttamento tedesco quello di un possibile sfruttamento giapponese delle risorse russe. Quando Mackinder e Spykman scrivevano, la Cina, di fatto, non esisteva più come potenza indipendente; ma entrambi ne conoscevano le enormi potenzialità e le enormi differenze rispetto alla Russia: prima di tutto, uno sbocco al mare accessibile tutto l’anno (la cui assenza costituisce il più grave handicap per Mosca) e una piana fluviale le cui ampiezza, interconnessione e fertilità sono comparabili a quelle del bacino del Mississippi. Una volta che avesse riconquistato la propria unità e indipendenza politica, scrissero sia Mackinder che Spykman, la Cina sarebbe diventata il vero Heartland, il vero «cuore della terra».
Per Spykman, gli Stati Uniti avrebbero dovuto assicurarsi il controllo del Rimland, un anello terrestre esteso dal Baltico all’isola di Hokkaido, passando per il Medio Oriente, l’Asia meridionale e la Cina; per questo, Spykman viene a giusto titolo considerato il «padrino del containment». Ma all’epoca lo scopo principale era creare un cordone sanitario che mettesse sotto tutela la Germania e il Giappone per frustrare ogni possibile tentazione di unire le loro forze a quelle della Russia. Sia per Mackinder che per Spykman, la Russia era una minaccia indiretta, di second’ordine, si potrebbe dire, perché il pericolo veniva piuttosto dall’uso che le due grandi potenze industrializzate contigue avrebbero potuto farne. Nel caso della Cina, invece, il pericolo sarebbe stato diretto: «Una Cina moderna, vitalizzata e militarizzata... sarà una minaccia non solo per il Giappone, ma anche per le potenze occidentali», scrisse Spykman.
Nel suo libro sulla Cina, Henry Kissinger lascia intendere che gli Stati Uniti avrebbero potuto (e dovuto) inserire la Cina nel Rimland fin dal 1949; il presidente Harry Truman e il suo segretario di Stato Dean Acheson ne avrebbero d’altronde avuto l’intenzione, ma l’annebbiamento ideologico del Congresso (Mao Zedong, in fondo, si definiva comunista) e, successivamente, la guerra di Corea, impedirono loro di raggiungere lo scopo, con il risultato di regalare la Cina alla Russia e di perdere un anello indispensabile del Rimland. Nel 1972, con la «quasi alleanza» (parole sue) con la Cina, lo stesso Kissinger avrebbe posto rimedio a quell’errore, completando così il progetto di Spykman e di Kennan.
Nel 1972, il peso economico della Cina era appena inferiore a quello del Belgio e quasi quattro volte meno rilevante di quello dell’Italia (e 25 volte meno di quello degli Usa); l’autarchia maoista e la guerra civile della cosiddetta «rivoluzione culturale» avevano impedito a questo colosso benedetto da risorse naturali straordinarie di sfruttare le sue immense potenzialità. Dopo la morte di Mao (1976) e l’apertura al mercato mondiale, l’ascesa cinese è stata irresistibile, e il tracollo dell’Urss ha fatto venire meno le ragioni della «quasi alleanza» del ’72. Nei primi vent’anni del nuovo secolo, la Cina è diventata sempre più chiaramente il primo competitore degli Stati Uniti (ma anche il suo primo partner commerciale), un ruolo che la Russia non ha mai avuto e mai avrebbe potuto avere. L’Unione Sovietica cercava di competere sul piano militare, mobilitando a questo scopo gran parte delle sue risorse; la Cina, nel 2019, ha consacrato l’1,9 per cento del suo prodotto interno lordo alla spesa militare, cioè quanto la Francia e quasi la metà di Russia e Stati Uniti (dato sostanzialmente invariato dal ’92).
Insomma, per le dimensioni e le potenzialità della sua economia, la Cina rappresenta una sfida concreta al ruolo degli Stati Uniti e alla loro egemonia mondiale; non è affatto detto che voglia o che riesca a prenderne il posto, ma la minaccia resta, e spinge la classe dirigente americana – di entrambi i partiti – a cercare delle contromisure che, molto probabilmente, contribuiranno ad accrescere le tensioni tra i due Paesi, sia che Trump riesca a ottenere la riconferma alla Casa Bianca, sia che gli subentri il democratico Joe Biden. Il rischio maggiore del paragone con la guerra fredda con la Russia è che qualcuno negli Stati Uniti pensi che la pratica cinese possa essere trattata allo stesso modo e avere lo stesso esito. Non sarà così: la «vera» guerra fredda comincia oggi. Con la speranza che non diventi calda.