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 2020  ottobre 17 Sabato calendario

Piazza Fontana, l’ombra della Cia

Quattro righe battute a macchina in un resoconto stenografico di 122 cartelle. Poche parole coerenti con altre pronunciate in oltre tre ore di seduta: «Che agenti della Cia si siano immischiati nella preparazione degli eventi di piazza Fontana e successivi è possibile, anzi sembra ormai certo; erano di principio antiaperturisti e anti-centrosinistra. Che agenti della Cia fossero fornitori di materiali e fra i depistatori sembra pure certo».
A esprimersi così sulla Central Intelligence Agency americana fu uno degli italiani che più avevano conosciuto, dall’interno dello Stato, la storia palese e parti di quella riservata della cosiddetta «Prima Repubblica». Era il 1° luglio 1997. Il senatore Paolo Emilio Taviani, in una fase segreta dei lavori, lo disse di fronte a un organismo dal nome lungo eppure più che appropriato per la sua audizione: «Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi». Taviani accennò anche all’eventuale coinvolgimento nell’attentato di «un colonnello dell’Arma dei carabinieri» o di un «ipotetico ufficiale del Sid». Chi scrive ha trovato queste affermazioni nell’Archivio storico del Senato. Rientrano tra gli atti che, per volontà delle attuali presidenze delle Camere, adesso, non sono più coperti da omissis.
La strage di piazza Fontana, a Milano, fu compiuta il 12 dicembre 1969. Venne causata da una bomba nella Banca nazionale dell’Agricoltura che uccise 17 persone e ne ferì 98. Già segretario della Democrazia cristiana, ministro della Difesa (tra 1953 e 1958), dell’Interno (tra 1962 e 1968 e tra 1973 e 1974) e nel 1969 del Mezzogiorno, Taviani aveva titolo per aiutare a chiarire perché su piazza Fontana risultò tortuoso individuare le responsabilità dei fascisti, riconosciute nel 1979 dalla prima sentenza del processo di Catanzaro (negate in un appello reso definitivo e riemerse nel 2005 in Cassazione sulla base di un processo milanese).
Dopo aver dissentito nel 1973 dalla «teoria degli opposti estremismi», perché non giudicava equivalenti i pericoli degli estremismi rosso e nero, dopo aver sciolto nel 1974 l’«Ufficio affari riservati» del Viminale, l’ex comandante partigiano genovese non ricoprì più delicate cariche di governo. Nell’audizione del 1997 avanzò un’ipotesi su piazza Fontana: che i depistaggi in base ai quali quella strage sarebbe stata a lungo attribuita agli anarchici e a Pietro Valpreda fossero stati organizzati prima, non dopo lo scoppio della bomba. Taviani sostenne, come altri, che quell’esplosione uccise persone per effetto di un errore: chi piazzò la carica credeva che quel pomeriggio la banca dovesse restare chiusa.
«Il problema è se il cappello di Valpreda ed altre cose erano state predisposte da qualcuno o se invece erano puramente casuali, quindi non un depistaggio posteriore, ma addirittura un depistaggio anteriore all’operazione», sottolineò il senatore riferendosi a particolari delle indagini. Taviani escluse che qualcuno dello Stato avesse partecipato all’attentato se avesse compreso che la banca sarebbe stata aperta: «Se si ignora questo tassello è impossibile attribuirne la responsabilità e la colpevolezza (che in ogni caso [segue una parola incomprensibile annotata a mano, ndr]) a personaggi seri». Le annotazioni a penna sono del senatore e successive alla stesura del resoconto. Taviani cancellò sei parole dopo «personaggi seri»: «... come io ritengo siano i responsabili». Continuava l’ex ministro: «Non è infatti possibile pensare che un colonnello dell’Arma dei carabinieri, persona seria e intelligente, pensi di ammazzare tredici italiani. Evidentemente la bomba doveva scoppiare come le bombe di Roma».
Di 13 morti fu il primo conteggio delle vittime in piazza Fontana. A Roma, nello stesso 12 dicembre, ordigni esplosero in via Veneto, in piazza Venezia, al Museo del Risorgimento e ferirono 16 persone senza uccidere nessuno. Come se il tutto avesse dovuto costituire un fragoroso avvertimento. Con nota a margine, firmata, nella sua revisione al resoconto, il senatore sostituì «colonnello dell’Arma dei carabinieri» con «ipotetico ufficiale del Sid». Il Sid, Servizio informazioni difesa, era il servizio segreto italiano militare. «Il problema pertanto è se c’è stato un depistaggio anche precedente. Non ero al governo, ma ho fatto delle indagini a mio modo», sottolineò Taviani valutando ulteriori ipotesi.
L’ex ministro citò la Cia su piazza Fontana durante una descrizione di servizi segreti stranieri. Ne evidenziò differenze rispetto ad apparati di Israele e Urss: «Ben diverso il discorso per il Mossad, un servizio perfettamente organizzato. Però il Mossad, a quando risulta a me, ha compiuto sempre azioni mirate. Non credo che sia stato presente a piazza Fontana, né nelle stragi ai treni (...). Gli agenti del Kgb brillavano per intelligenza e per cultura. Conoscevano alla perfezione la lingua e la cultura italiana. Senza apparire, tenevano sempre sotto tiro il Partito comunista. Avevano un solo scopo: impedire che esso diventasse un partito di governo».
Taviani guardava alla sostanza al di là degli stereotipi. Riteneva estraneo il Movimento sociale di Giorgio Almirante da stragi compiute da gruppi di destra. Allo stesso tempo nell’esaminare due inquietanti fenomeni di allora distingueva: «C’era anche il pericolo, ed era forte, delle Brigate rosse, delle quali io stesso ero oggetto di attentati. Tuttavia, il pericolo di una dittatura e di una involuzione autoritaria era solo quello di destra». Più precisamente: «Io non ho mai detto che quello sia stato l’unico pericolo di eversione. Ma l’unico pericolo di poter arrivare a una scelta dittatoriale. Cioè l’unico pericolo di arrivare ad un golpe». Pur senza sottovalutarle, sulle ripercussioni delle azioni delle Br osservò: «Non si sarebbe certo sgretolato lo Stato».
Secondo Taviani «se si fosse detto subito, come era mia intenzione, che la strage di Milano era di destra», si sarebbe lasciato meno spazio a capacità del terrorismo rosso di attrarre giovani. Una convinzione ripetuta: «Se si fosse detto che quella strage era di destra, probabilmente non si arrivava né alle stragi dei treni, ma soprattutto non si arrivava all’uccisione di Moro». Una convinzione pesantemente amara.