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 2020  ottobre 18 Domenica calendario

Recensione del documentario su Totti

Totti è come la Madonna, un atto di fede. Non si discute, si ama (o lo si invidia, se ti giocava contro). E adesso che non si può più ammirare sui campi, lo si può almeno stare ad ascoltare. Come fa il regista Alex Infascelli in Mi chiamo Francesco Totti, dove lui in prima persona ripercorre tutta la sua carriera, dai primi calci all’oratorio alle partite con la maglia della Lodigiani fino all’arrivo alla Roma dove esordisce in prima squadra a sedici anni. Quasi trent’anni sui prati della serie A, fino al 28 maggio 2017, quando lasciò definitivamente il gioco professionistico: una carriera lunghissima, dove non sono mancati i momenti anche dolorosi, che il film illustra con materiale poco o niente visto e soprattutto con i filmini familiari (si vede anche a due anni, mentre cerca di tirare un calcio in spiaggia a una palla più grande di lui), sempre circondato dalla famiglia, dai parenti e poi dalla moglie Ilary e i tre figli. Centocinque minuti di immagini che Totti accompagna con i suoi commenti, a volte ingenui a volte emozionati ma sempre autentici grazie alla sua innata e coinvolgente simpatia. Ogni tanto il film cerca di trasformarlo in un supereroe, che spunta dal buio o si muove tra le fiamme, ma lì senti subito che c’è qualcosa di stonato, di finto. Per fortuna poi lo rivedi con la palla al piede e Totti ridiventa Totti. Per sempre in excelsis.