il Fatto Quotidiano, 18 ottobre 2020
Biografia di Dario Cassini raccontata da lui medesimo
I Cassini sono tre. Riccardo è uno dei più apprezzati autori televisivi. Marco ha fondato la casa editrice Minimum fax. Dario è cabarettista e attore.
E quando c’è Dario Cassini, si ha la vaga sensazione di avere di fronte un trino; con lui ogni domanda prevede un inizio di risposta, una divagazione, un’altra divagazione, un’associazione d’idee, un ricordo, una battuta, magari una barzelletta collegata alla battuta, una provocazione, un suo interrogativo (“perché, lei cosa risponderebbe?”) e la conclusione della risposta. Nel frattempo, come se non bastasse, passa l’aspirapolvere, pensa al figlio di cinque anni e riflette sulle proprietà taumaturgiche del cibo (“e sono migliorato: a cinquant’anni lo psicologo mi ha insegnato ad ascoltare”).
Gioca d’anticipo.
Ama il controllo su ciò che accade, butta il peperoncino negli occhi dell’interlocutore, difende la privacy di un ragazzo diventato presto orfano, poi sradicato da Napoli (“a 13 anni mamma decise di portarci a Roma”) e cresciuto con uno zio speciale, Dino Verde.
È tra i protagonisti de I predatori, film premiato a Venezia, opera prima di Pietro Castellitto.
Interpreta il medico, come suo padre.
E gli italiani devono ringraziare il caso se nessuno dei tre fratelli ha seguito le sue orme; (sorride) io con in mano un bisturi, mi vengono i brividi per il paziente.
Diretto da un esordiente.
Il sangue è il sangue, e sul citofono di questo ragazzo c’è scritto Mazzantini e Castellitto; lui a 22 anni ha scritto un copione politico straordinario, di una profondità rara, e per fortuna ha incontrato “San” Domenico Procacci: in Italia è il solo a offrire una possibilità ai giovani.
Nel film c’è Massimo Popolizio.
Il numero uno in assoluto, e mi ha salvato la vita già al primo ciak, quando all’ennesima ripresa non si è scomposto davanti a un mio errore di battuta, ma ha improvvisato.
Nel film lei è lo stronzo.
(Sorride) A volte sono stato peggio; comunque io vivo di teatro, di televisione e di libri; oddio i libri oramai sono la parte residuale: l’8 per mille lo assegnerei ai librai.
Torniamo al cattivo.
Ero peggio in Cemento armato, e lì ho avuto la fortuna di conoscere Giorgio Faletti e sua moglie Roberta; durante la prima, a Roma, una giornalista chiese a me, seduto accanto a lui, com’era la sensazione di un comico alle prese con un ruolo drammatico.
E…
Giorgio intervenne: “Qui il cattivo sono io, Cassini fa la merda. Che è diverso”.
Faletti un suo mito?
(Tono grave) Perché il suo no? Quanti anni ha? Ho appena aperto una bottiglia di Amarone e ho finito di passare la vaporetta; (sospiro) Giorgio è un punto importante, amico di una generosità rara, disponibile a consigli e confidenze. È stato lui a svelarmi i segreti per costruire un giallo, e adesso ne sto scrivendo uno con l’aiuto di mio fratello Marco e la supervisione di Roberta.
Lei da piccolo.
Volevo essere Freddie Mercury ma etero, eppure da giovincello non avevo accesso al giradischi: mio fratello mi brutalizzava.
Con ragione?
Riccardo aveva la giurisdizione sull’impianto stereo e l’acquario, un acquario enorme; un giorno mi chiese di seguire l’alimentazione dei pesci, e io versai l’inchiostro; si salvò solo un piranha cattivissimo.
Cosa vuol dire essere napoletano?
Chi tene ’o mare s’accorge ’e tutto chello che succede, diceva Daniele Giuseppe in arte Pino.
Conosciuto?
Per lui sono partito con Riccardo a bordo di una 2 Cavalli, destinazione Perugia e solo per vedere le prove; lì scoprii un assoluto: Pino Daniele possedeva una serie di doti straordinarie, meno il senso dell’umorismo.
Resta un suo mito.
Insieme a Maradona, la pizza, la mozzarella e il caffè; e non voglio sentir parlare di mozzarella buona, fuori dal pentagono Caianello, Capua, Teano, Mondragone e Aversa.
Fuori non è mozzarella.
(Silenzio) Questa pausa è per la disapprovazione. (Altra pausa, e inizia a parlare dei Maya).
Torniamo a prima.
La storia dei Maya è bella.
È considerato un sex symbol.
Anni fa ero l’equivalente di una bella donna, seminuda, che attraversa la strada.
Quanto ha sedotto?
Potrei riempire gli spazi dell’enciclopedia Utet, e ho iniziato a 12 anni e sono cresciuto al Vomero, mia madre dotata di palle nobiliari.
Cosa c’entra mamma?
Anno 1990, ero a Fantastico per un concorso dedicato ai nuovi comici. All’ultima puntata, prima del sipario finale, chiamo mamma, e lei: “Figlio mio, non voglio sapere perché non stai ballando in diretta la sigla, ma sei al telefono con me; però si vede che le ballerine ti conoscono bene”. Insomma, aveva sgamato le mie attenzioni.
Perché quella chiamata?
Desideravo confessarle di essermi fottuto la carriera.
Che aveva combinato?
Per arrivare in finale avevo bruciato tutti i raccomandati e le avversità del caso; poi scopro di non aver vinto, così per stizza rivelo in diretta qual è il biglietto vincente della lotteria; (silenzio) come cucina?
Chi?
Lei.
Torniamo a mamma.
È la sorella di Dino Verde (celeberrimo sceneggiatore e paroliere), autore dei testi di Alighiero Noschese, Walter Chiari, Sandra e Raimondo. Quindi per lei sono una passeggiata; (sorride) in una puntata di Fantastico come giurato c’era Jerry Lewis: durante la mia esibizione mi accorgo che ride, ma a scoppio ritardato per via della traduzione. Dalla felicità me ne frego dei milioni di spettatori e inizio a rallentare per godere delle sue reazioni (adesso sorride).
A cosa pensa?
Molti anni fa, a Napoli, mi ingaggiano per uno show e quando arrivo scopro che è voluto e pagato da un camorrista. Insieme a me Eugenio Bennato, convinti fosse Edoardo.
Perfetto.
Eugenio inizia a cantare, ma dopo quattro canzoni il padrone di casa si alza, mostra in alto l’anello, e grida: “Bennato, facci W la mamma”. Eugenio riprende come niente. Altro stop. “Bennato, facci W la mamma”. Niente. “Benna’, ce la vuoi fare W la mamma o no?”. Ed Eugenio: “Gentile signore, quello di W la mamma è mio fratello”. Gelo. Il camorrista si rialza. “Vabbuò, ma tanto la mamma è la stessa”.
È nato in una famiglia particolare.
Il padre di mia madre era il braccio destro di Achille Lauro, ma in casa non c’era una lira, e quando cucinavano i rigatoni, li servivano scotti perché così risultavano più grandi.
E lei?
Il mio primo jeans Levi’s è arrivato per i diciotto anni grazie a una colletta degli amici; noi da sempre ringraziamo una Onlus che sostiene gli orfani dei medici: ci hanno pagato, da sempre, le tasse scolastiche, i libri, più le vacanze. Il nostro unico obbligo era conseguire i giusti risultati a scuola.
Una manna.
Quando mamma doveva chiamare il direttore della Onlus, ci pettinava e vestiva bene: non voleva rischiare anche se era solo al telefono.
Da ragazzo era incazzato?
Non è comodo quando giri per Roma con solo motorini vecchi, solo abiti vecchi, solo tutto vecchio.
A Roma.
Sbarcati nel 1983, con mamma convinta che sarebbe andata meglio.
La prendevano in giro?
174 chilometri di razzismo: sono stato chiamato “Napoli” fino a quando è arrivato Maradona e io ho scoperto che ero un fenomeno a battere i calci di punizione. Un cecchino.
Che liceo era?
Di estrema destra, dove Paolo Signorelli fece tatuare una svastica a Giusva Fioravanti; il primo giorno mi presentai vestito come Che Guevara. Ero decisamente un outsider in cerca di sicurezze.
Attività politica?
Non avevo i mezzi, non ero strutturato; mi dedicavo più al calcio e alle donne.
Un errore corretto…
Fino ai cinquanta sono stato avvolto dall’esigenza di ottenere un effetto comico in ogni conversazione. Strafacevo. Poi grazie al mio psicologo ho imparato l’ascolto dell’altro.
Il suo primo palco.
Quello dell’Accademia Silvio D’amico, ma ero una pippa e non mi hanno voluto, poi la moglie di mio zio mi aveva iniziato a pagare alcune lezioni di recitazione.
E torna Dino Verde.
Una sera zio va al cinema per vedere Ben Hur, e lì si innamora di José Greci nel ruolo di Maria. La sposa. Ed è stata lei la prima a credere in me.
Zio onnipresente.
Era una superstar, un uomo che non ha mai avuto il tempo di spendere i soldi che ha guadagnato: è lui ad aver scritto Ciao Rudy per il Sistina, Mastroianni protagonista. E mio fratello Riccardo gli assomiglia: lui segue Fiorello, Panariello, De Sica, Carlo Conti e la De Filippi.
E zio Dino…
Giocava a tennis vestito di solo cachemire e con in mano una sigaretta; aveva un amico, anzi un adepto, che pur di stargli accanto accettava tutto, anche il cambio del nome: “Achille è equivoco, finisce per ‘e’, meglio Achillo, è maschio”. E lui per sempre si è presentato come Achillo.
Quindi siete arrivati a Roma per seguire lui.
In qualche modo, ma alla fine ha ostacolato anche suo figlio Gustavo, autore eccezionale; quando mia madre, finalmente, trovò il coraggio per parlargli di me, lui rispose: “Se è bravo, lo diventa da solo”.
Ha recitato per Monicelli.
Lì ho imparato tutto, e lui era il male in commedia: non ho dormito per 45 giorni, tutto il tempo delle riprese, e i suoi costanti cazziatoni mi hanno devastato; (cambia tono) alla fine mi spiegò il suo atteggiamento: “Se uno ha la possibilità di recitare con me, lo tratto male”.
E lei?
Per anni mi è rimasta addosso l’ansia da prestazione; poi è arrivato Gabriele Salvatores.
Bene, no?
(Abbassa il tono) Mi venne a cercare in un teatro di cabaret napoletano e mi offrì dodici pose e trenta scene in Denti; il giorno della prima vado all’Adriano di Roma e davanti allo schermo scopro che aveva tagliato tutta la mia parte.
Dolore.
Stavo decidendo di cambiare mestiere; c’è solo il mio nome nei titoli di coda.
Nel curriculum c’è un film con Jerry Calà.
Uno tsunami di gnocca.
Eh…?
Un’onda anomala di donne bellissime con il quoziente intellettivo di un lombrico, desiderose di sesso pure durante le riprese. Io un bambino felice.
Un amico.
Max Pezzali è un uomo di una simpatia e generosità rara, e ancora adesso non vive nel mito di se stesso, è sempre un ragazzo semplice, fragile e insicuro. Fatto tutto di sentimenti.
È mai stato semplice, fragile insicuro?
Anche ora mentre parlo; però è vietato dalla legge mettere al mondo un figlio da “insicuro”.
Complessi?
Oggi combatto con il peso, quando ero una statua greca ero convinto di avere la pancia.
Come guarda il lei ventenne?
Con invidia, perché so quello che ha combinato, non mi può dire cazzate; e mi rode quando mi dicono “quanto eri bello”.
Per anni a Zelig.
Senza Claudio Bisio quel programma non sarebbe esistito: lui era il 50 per cento del totale, ogni minuto; lui riesce a far emergere e ottenere successo anche a un cassonetto della differenziata.
Vizio.
Il mio bisogno spasmodico di voler mangiare, bere, fumare; fare l’amore, progettare. Sono in perenne fase orale.
Sopravvissuto?
Alla morte di mio padre, a una decina di terremoti e agli incidenti in auto e in moto.
Il rapporto con i soldi.
Non sopporto gli scrocconi, chi si aspetta che paghi io, o chi dopo dieci volte che viene a pranzo da me poi non mi invita.
Chi è lei?
Di sicuro non sono lei che me lo chiede.
E oltre?
Un padre. Un umorista. Una persona onesta. E sono ancora vivo.