Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2020
Vendesi corpo colorato
La Ribot e Claudia Castellucci, leonesse d’oro e d’argento alla Biennale Danza 2020, in corso a Venezia fino al 25 ottobre, rappresentano le due facce complementari di un certo modo di intendere la danza oggi. Da un lato l’artista poliedrica, stravagante, provocatrice e allo stesso tempo ironica, che propugna una danza politica, inclusiva, che reinventi il reale con immaginazione e poesia; dall’altro una ricercatrice rigorosa, appartata, convinta che si debba ripartire da uno studio individuale e metodico sugli elementi basilari del gesto e del ritmo per ritrovare – attraverso la verità fisica dei corpi – una funzione rigeneratrice e salvifica della danza. Entrambe sono impegnate in un pluriennale lavoro di riformulazione dei linguaggi e di interrogazione sul ruolo dell’artista oggi, in un’epoca caotica e incerta, segnata dalla scomparsa delle ideologie e dalle minacce alla sopravvivenza stessa del genere umano.
Se la spagnola María José Ribot, con le sue performance Más Distinguidas – ciascuna di proprietà di un filantropico collezionista per il quale idealmente ogni volta la esegue in scena – denuncia la mercificazione dei corpi, l’aggressività dei sistemi neoliberisti, senza rinunciare a una critica ironica dell’eccessivo concettualismo di una certa avanguardia artistica, Claudia Castellucci, con i giovani danzatori-adepti della compagnia Mòra, propone rigorose partiture coreo-ginniche basate sulla punteggiatura del ritmo, sulla metrica dei suoni e delle pause, sulla calibratura dei silenzi, per praticare, come ha spiegato durante la cerimonia di consegna del Leone, «un’arte dei fatti e non solo dei contenuti». La sua Fisica dell’aspra comunione, presentata in prima assoluta alla Biennale, è un ballo (come preferisce definirla) che, a partire dal Catalogue d’Oiseaux di Olivier Messiaen, indaga sulle forme elementari e sfuggenti del gesto in relazione al tempo e allo spazio. Tra sussulti e pause, in un aggregarsi e disgregarsi continuo, i cinque interpreti (tre donne e due uomini) sono i sacerdoti di una liturgia solenne, incarnano il fluire ininterrotto dell’energia vitale, tra ordine e caos, tra corporeità e spirito.
Ai colori sgargianti di La Ribot, al suo trovarobato di oggetti dissacranti e al corpo nudo e simpaticamente punteggiato dalle macchie colorate dei capelli e del pube, Castellucci preferisce il nero monacale degli essenziali costumi che indossano i suoi danzatori. Se la prima interpreta le sue performance rivolgendosi direttamente al pubblico, provocandolo quando si appende al collo l’avviso Se vende, o quando “censura” le sue nudità sovrapponendovi le foto istantanee delle stesse, o quando nel tentativo di azionare un misterioso elettrodomestico questo finisce per soffocarla, i danzatori di Mòra agiscono invece come in un rituale esoterico alla Gurdjieff, una cerimonia che si osserva con incanto e discrezione.
La Biennale 2020 – l’ultima diretta dalla canadese Marie Chouinard – dimostra che di entrambe le esperienze si avverte oggi il bisogno: da un lato una passione esuberante, il gusto del gioco, la ricerca dell’eccesso e della provocazione che risvegliano le coscienze; dall’altro il recupero di una dimensione “sacrale” dell’esperienza teatrale, un ritorno agli elementi primordiali, all’essenzialità dell’ascolto e dell’agire che ridà equilibrio in un tempo fuori di sesto. Funzioni entrambe necessarie, che restituiscono al teatro la sua natura sociale e catartica, da un lato, e la sua capacità pedagogica e rigeneratrice, dall’altro.
In questa Biennale miracolosamente scampata alle restrizioni anti-Covid, che ha dovuto rinunciare ad alcuni artisti internazionali, spicca la nutrita presenza degli italiani di ultima generazione: il giovane Marco D’Agostin, insieme a Teresa Silva, si interroga con Avalanche sulle dinamiche della memoria e sul rischio che la babele di lingue e ricordi di cui è composta la nostra identità, venga travolta dalla valanga della Storia; Chiara Bersani con Gentle Unicorn e Silvia Gribaudi con Graces propongono sguardi eccentrici e spiazzanti sulla bellezza; Matteo Cervone, Adriano Bolognino, Sofia Nappi, Claudia Catarzi e Silvia Giordano, giovanissima allieva-coreografa della Biennale College, disegnano una mappa in divenire della danza contemporanea italiana che si dimostra vivace, polimorfa e inquieta.
Ma la prima settimana di festival ha deliziato il pubblico anche con l’affascinante e ipnotico Time Takes the Time… del libanese Guy Nader e della spagnola Maria Campos, una partitura di gesti e figurazioni che i cinque bravi danzatori eseguono come un sofisticato meccanismo ad orologeria sulle percussioni dal vivo di Miguel Marin, un omaggio al fluire del tempo e del movimento. Dal suo canto, la magnetica performer belga Lisbeth Gruwez ha interpretato, con la complicità della pianista Claire Chevallier, un emozionante assolo sui Piano Works di Debussy, e sarà ancora in scena giovedì prossimo con un omaggio a Bob Dylan.