Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2020
Piacere, io sono l’inventore del cubo
Era la primavera precedente il mio trentesimo compleanno, nel 1974, e la mia stanza era come la tasca di un bambino, piena di biglie e altri tesori: pezzi di carta con scarabocchi e immagini, matite, pastelli, spago, bastoncini, colla, spilli, molle, viti, righelli. Questi oggetti avevano invaso ogni angolo della stanza, le mensole, il pavimento, la scrivania che fungeva anche da tavolo da disegno; erano appesi al soffitto, appuntati sulla porta, infilati nel telaio della finestra. Tra di essi c’erano moltissimi cubi: di carta, di legno, monocromi o multicolori, interi o suddivisi in blocchetti. In teoria era la stanza dove preparavo le lezioni e dove poteva venirmi qualche idea per i miei studenti. In realtà si sarebbe rivelata essere molto di più.
Un giorno – chissà quando, chissà perché – un’idea aveva catturato la mia attenzione: avevo pensato che sarebbe stato interessante assemblare otto piccoli cubi in maniera tale che restassero uniti fra loro ma fosse anche possibile spostarli singolarmente. Non avevo la benché minima idea se avrebbe potuto essere interessante per qualcun altro al di fuori di me. Ciò che mi assorbiva era un dettaglio apparentemente irrilevante, ossia l’impossibilità di dare libertà e autonomia di movimento a tutti gli otto pezzi facendo in modo che restassero comunque collegati. Un rapporto o una correlazione meccanica presuppone una certa costanza. Una porta ruota sempre sui cardini; si muove, ma non si allontana mai da quei giunti. Le ruote di un’automobile girano sempre intorno all’assale. La prima questione che dovetti affrontare fu dunque capire come tenere insieme gli otto piccoli cubi in modo che potessero restare connessi fra loro e al tempo stesso muoversi. Teoricamente quattro di loro potevano ruotare contemporaneamente rispetto agli altri quattro, ma dove doveva essere posto «l’assale»? Il problema era facilmente illustrabile con un modellino, e così mi dedicai alla sua realizzazione. Anzitutto, costruii otto identici cubi di legno, i cui spigoli avrebbero potuto essere levigati (non credo che all’inizio i miei lo fossero, ma è più carino immaginarli così). Poi praticai un foro in un angolo di ogni cubetto in modo da poterli collegare due a due con un elastico e ottenere quattro coppie. Dopodiché, collegai le coppie tra loro agli angoli opposti, creando così un cubo 2 × 2 × 2 formato da cubi più piccoli dei quali potevo ruotare le facce autonomamente ma in modo che restassero uniti. Sentivo di aver risolto il problema! Avevo realizzato qualcosa di meravigliosamente semplice che in effetti rispondeva alle indicazioni di partenza: era un tutt’uno ma poteva muoversi.
Ci volle poco per capire che la mia magistrale costruzione non risolveva un bel niente. Infatti si disfò letteralmente. Al suo interno scoprii un grosso nodo incredibilmente aggrovigliato. L’elastico sopportava la tensione per un po’ di tempo ma a forza di rotazioni si spezzava. Fu una grossa delusione, ma ero molto curioso di scoprire perché fosse successo. Avevo dato forma alla natura di un problema e la sua espressione tridimensionale mi aveva catturato. Ne ero rapito a livello razionale ed emotivo. Il problema non era più solo un interrogativo teorico: era diventato una presenza fisica tra le mie mani.
Non avevo a che fare con un’astrazione, con un concetto, sebbene fosse iniziato così e dentro di me lo percepissi ancora così. Era qualcosa di reale. Un oggetto come concetto e viceversa. Una via di mezzo. Una sfinge di problema. Se avessi trovato la chiave di volta dell’oggetto avrei trovato anche quella del concetto. Era necessario percorrere una distanza ignota in un territorio inesplorato. Molto imbarazzante. Molto stimolante. Nei giorni seguenti cominciai a studiare la natura del problema e le sue possibili soluzioni. La prima fase di indagine fu mentale. Per ragioni teoriche scartai immediatamente diverse possibilità, senza nemmeno cercare di dare loro un’attuazione pratica; mi sembravano troppo farraginose e complicate. Ero convinto che una soluzione ci fosse, e che dovesse essere semplice. In questo momento stiamo parlando di struttura o, più esattamente, della costruzione di un oggetto. Dal punto di vista costruttivo avevo realizzato un sistema di collegamento tra i singoli cubetti che a un certo punto aveva ceduto. Mi resi conto che le possibilità di movimento erano talmente ampie che il collegamento attraverso gli elastici non era utilizzabile a lungo. Poteva mantenere l’integrità strutturale per un numero limitato di rotazioni, non per centinaia. Avevo bisogno di qualcosa di più durevole, che avesse un’efficienza pressoché illimitata. Erano due i punti essenziali del sistema: gli assi di rotazione e gli elementi colleganti. Sostituii allora gli elastici con una lenza da pesca ma non era ancora questa la soluzione ottimale. Erano necessari degli elementi rigidi. Tentai allora di rendere la soluzione leggermente più complessa ma anche più semplice, separando le due funzioni: quella di permettere la rotazione intorno a un certo asse e quella di creare una forza di coesione che tenesse insieme i singoli pezzi.
Conclusi che la soluzione non sarebbe stata fornita da un cubo 2 × 2 × 2 ma da uno 3 × 3 × 3. Era chiaro che già la soluzione tecnica avesse bisogno di un numero maggiore di pezzi. Un cubo 3 × 3 × 3 contiene il 2 × 2 × 2, ma oltre ai cubetti vertice ha anche quelli centrali e quelli spigolo. Con parti intermedie e un centro nascosto (o «fantasma»), il movimento poteva essere via via più complesso. Diventava la risposta alla domanda originaria, ossia come creare una struttura nella quale i singoli elementi fossero collegati tra loro ma potessero anche essere spostati individualmente. Così fu realizzato il mio primo modellino in legno… e funzionava! Il modello, tuttavia, aveva solo ventisei pezzi. All’inizio pensavo che il cubo centrale fosse superfluo dal punto di vista costruttivo. In seguito mi resi conto che invece era essenziale. Anzi, che era proprio il nucleo in grado di tenere insieme tutto il resto. Quello che avevo realizzato era chiaramente un oggetto ma, particolare più interessante, era la materializzazione tridimensionale di un concetto. In quanto rappresentazione, conteneva solo l’essenza di una costruzione tridimensionale, così come una rappresentazione pittorica contiene solo l’essenza dell’immagine reale. Costruire modelli è una parte fondamentale dell’attività di un progettista, che si tratti di un architetto, di un designer o di un professionista impegnato in un campo attinente, pur essendo modelli che per loro servono solo da illustrazione. C’è una differenza a prima vista minuscola ma di fatto infinita tra la realtà di un oggetto come esiste nel mondo – che sia un edificio, una pallina da tennis o un cubo – e la sua perfezione geometrica. Tutto, nel mondo reale, è un po’ imperfetto rispetto al suo ideale corrispettivo geometrico. Si tratta di un particolare fondamentale, addirittura enorme. Le definizioni geometriche sono cristalline, mentre nel mondo reale non esistono espressioni fisiche di tali definizioni. Nemmeno lo specchio più liscio potrà mai essere all’altezza di ciò che intendiamo quando parliamo di «piano». Nonostante avessi realizzato dei cubetti «perfettamente» regolari, essi presentavano minuscole, inevitabili variazioni tra uno e l’altro. Niente di percepibile a occhio nudo, ma al confronto con l’ideale che esiste sulla carta – o, oggi, sullo schermo di un computer, o come definizione, enunciato teorico – erano imperfetti.
Da Il cubo e io. Storia del rompicapo che ha incantato il mondo e del suo inventore Erno Rubik UTET, Torino, pagg. 208 € 19