Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  ottobre 18 Domenica calendario

Su "Voltaire contro Shakespeare" di Mara Fazio (Laterza)

Ci sono saggi congegnati così bene che il lettore può illudersi che abbiano trovato il loro indice da soli: come un organismo autosufficiente che giunge a maturazione per un’insopprimibile spinta interiore. Questa immagine si adatta bene a Voltaire contro Shakespeare di Mara Fazio. Il libro racconta una storia assai nota, quella dell’amore prima, e del disamore poi, del philosophe francese per il Grande Bardo: inizialmente indicato come modello per una riforma del teatro classicista che concedesse più spazio all’azione e alla spettacolarità, ma in seguito, nella fase terminale della sua vita – quando, anche grazie ai suoi sforzi, Shakespeare cominciava a trovare ammiratori in tutta Europa – combattuto con altrettanto calore nel nome dei princìpi di decoro e rispetto delle regole pseudo-aristoteliche di luogo, tempo e azione che i drammi dell’inglese sfidavano apertamente. Non nota, invece, era la profondità di questo rapporto, quasi un’ossessione, che Mara Fazio ricostruisce ora con scrupolo e acume, mettendo assieme dozzine di piccoli tasselli dai quali emerge una presenza di Shakespeare nell’opera di Voltaire molto più diffusa di quanto non si fosse creduto sino a oggi.
Il racconto della folgorazione che si trasforma in insofferenza – proprio mentre si stava consumando uno dei pochi mutamenti decisivi del gusto nella cultura occidentale – procede spedito, come impone un libro pensato non solo per i lettori accademici. Tutto facile, in apparenza. Basta però osservare il testo un poco più da vicino per rendersi conto a costo di quante fatiche (e di quanti artifici narrativi) l’autrice è riuscita a cucire in una affabulazione distesa e cordiale una vicenda fatta per lunghi tratti di allusioni e non detti (soprattutto nella fase centrale della vita di Voltaire, quando per dieci anni il nome di Shakespeare di fatto scompare dalla sua sconfinata opera). Per rendersi conto, cioè, di come Voltaire contro Shakespeare sia una serissima opera di ricerca travestita da opera di divulgazione.
Al di là della storia, di per sé affascinante, del giovane piromane impegnato a spegnere in vecchiaia gli incendi da lui stesso appiccati, nel suo libro Mara Fazio intende raccontare soprattutto la nascita del moderno relativismo estetico. Per due secoli almeno, classicismo aveva voluto dire unicità dei modelli culturali, nel segno di Atene e di Roma, la cui lezione poteva essere declinata con ampi margini di libertà (a seconda dei particolari talenti di ciascun autore) e persino superata, ma solo a patto di muoversi nel solco da esse tracciato una volta per tutte. Il diffondersi del magistero di Shakespeare fuori dall’Inghilterra significò invece ben presto (per esempio in Johann Gotfried Herder) il riconoscimento che esistono altrettanti stili legittimi quante sono le nazioni, e che le regole degli antichi non valgono necessariamente anche per i moderni – prima che questo richiamo a un presunto genius loci inscritto nella terra e nel sangue non si tramutasse a sua volta in un violento imperativo a conformarsi a esso per tutti gli autori nati e cresciuti in una particolare area linguistica.
La rivalutazione di Shakespeare messa in atto dal giovane Voltaire era stata fatta però inizialmente su tutt’altre basi, schiettamente classiciste. Come nel Settecento ogni uomo minimamente colto sapeva, nella Institutio oratoria (II.19) Quintiliano si era interrogato sul primato della tecnica o dell’ingegno individuale, riservando il primo posto a chi li possedeva entrambi, per concedere il secondo all’artista di genio privo della necessaria disciplina formale e solo il terzo al diligente imitatore sprovvisto di una autonoma scintilla creativa. Il barbaro Shakespeare, che ignorava o volutamente trascurava l’insegnamento di Aristotele e di Orazio, offriva a Voltaire un esempio perfetto di quella seconda classe di autori, simili a diamanti non lavorati (non casualmente lo stesso rimprovero era stato rivolto, a metà Cinquecento, a un “irregolare” come Machiavelli). Mentre, tra i pochissimi spiriti superiori, capaci di coniugare forza ed eleganza, natura e regola, Voltaire sperava ovviamente di essere un giorno annoverato lui stesso.
Le cose andarono diversamente, e Mara Fazio (che, come molti oggi, nutre scarsa simpatia per i classicisti) vede nella vittoria di Shakespeare l’annuncio di una stagione – la nostra – segnata dal predominio della cultura inglese prima e angloamericana poi. In questo caso il suo argomento può essere un poco sfumato, non solo alla luce del primato che la produzione artistica dell’hexagon ha mantenuto in quasi tutti i campi fino a tempi assai recenti, quando, per gli scrittori di metà del globo, l’affermazione in Francia era l’anticamera del riconoscimento internazionale (come anni or sono mostrò Pascale Casanova in un bel libro). Ciò che il “lancio” di Shakespeare a opera di Voltaire ha annunciato non è stato infatti una semplice translatio imperii, ma lo sdoppiamento del centro: un fenomeno che ha segnato nel profondo la dinamica dei fluidi della cultura internazionale otto-novecentesca. Secondo una precisa divisione dei compiti (mai esplicitamente teorizzata, ma non per questo meno stringente), la città sinonimo del buon gusto per eccellenza – Parigi –, deteneva il potere di legittimare, contro le stesse regole del suddetto buon gusto, opere e autori dai tratti variamente “barbarici” che, specialmente dal cuore dell’anglosfera, conquistavano il pubblico ma faticavano a guadagnarsi il riconoscimento degli intenditori. È una vicenda che – dopo Shakespeare – si sarebbe ripetuta con Charles Baudelaire ed Edgar Allan Poe, con il jazz, con il cinema noir (che, non a caso, possiede un nome francese anche in America), con François Truffaut e Alfred Hitchcock, con Clint Eastwood, e ancora in tempi recentissimi con Emanuel Carrère e Philip Dick o con Michel Houellebecq e H.P. Lovercraft: la trasformazione di un irregolare in un iconoclasta, se non proprio in un sovversivo. L’alleanza tra avant-garde e cultura popolare (o presunta popolare) contro l’arte pompier. Due secoli di moderno sono stati anche il frutto di questo proficuo scambio.
La stagione dell’aquila a due teste della cultura globale – da Voltaire sino ai giovani turchi dei «Cahiers du Cinéma» – si è però conclusa. Semplicemente, almeno da trent’anni l’America non ha più bisogno di alcuna sanzione esterna: un solo centro produce una vivace cultura di massa (che nega in partenza gli stessi concetti di alto e di basso) e seleziona, secondo i medesimi criteri con cui realizza le proprie opere, le idee, gli autori, le forme e gli stili altrui potenzialmente più adatti a essere rilanciati nei cinque continenti, in ossequio alla logica meramente quantitativa del mercato. Di fronte alla bruta forza dei numeri, il dissenso di Parigi (di qualsiasi Parigi) conta sempre meno, mentre si afferma una nuova ortodossia, non troppo diversa da quella che il giovane Voltaire aveva cercato di scardinare nel nome di Shakespeare. Non è un buon segno. E per quanto si possa venerare quest’ultimo, non si può non pensare con una certa nostalgia a una stagione, in cui – nel breve intervallo tra un’egemonia e assoluta e l’altra – il teatro di Corneille e di Racine poteva rappresentare ancora un’alternativa percorribile della drammaturgia occidentale, e non un exploit senza futuro, perché non c’era un solo arbitro del gusto.