Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2020
Il Grand Canyon in beata solitudine
Il Grand Canyon è una di quelle mete, come il Colosseo o la Tour Eiffel, che tutti conoscono o credono di conoscere, anche chi non lo ho mai visitato. Io ci ero già stato; che cosa, dunque, potevo aspettarmi che mi offrisse di nuovo? Niente, forse; ma la sorpresa è stata l’offerta di qualcosa di vecchio. Anzi, di antico, di preistorico. La differenza, manco a dirlo, l’ha fatta, come quasi tutto il resto di questi tempi, il coronavirus.
Andiamo con ordine. In tutti i parchi nazionali degli Stati Uniti c’è un albergo di lusso, che di solito risale ai primi del Novecento; nel Grand Canyon, si chiama El Tovar. Aperto nel gennaio 1905, prende il nome da Pedro de Tobar, che aveva raccontato dicerie sulle meraviglie del luogo e motivato la spedizione di García López de Cárdenas, il quale nel 1540 «scoprì» il Canyon per i bianchi. (Cárdenas cercava il fiume, non la vista sublime, ma i suoi uomini non furono in grado di raggiungerlo e lui dovette tornare con le pive nel sacco.) È però praticamente impossibile trovarvi posto: coppie, famiglie e comitive si prenotano con un anno d’anticipo; la sistemazione migliore che ho mai trovato, il Little America di Flagstaff, è a un centinaio di chilometri. Questa volta, invece, El Tovar non solo ha camere libere, ma le si trova anche a un prezzo di favore. Da quella che prenoto al ciglio del dirupo profondo quasi due chilometri c’è, sì e no, una ventina di passi.
Il motivo del prezzo ridotto si capisce subito. Nel corso del soggiorno i letti non verranno rifatti e dopo una registrazione surreale, protetta da maschere e pannelli di vetro, non si vede più nessuno: alla partenza basterà lasciare le chiavi in camera e avvertire per telefono. Il ristorante è chiuso: in tutto il villaggio è disponibile solo una tavola calda che offre pizza surgelata e zuppa estratta direttamente da una lattina. Ma tutto questo non ha importanza: non si viene qui per crogiolarsi nelle comodità o gustare le delizie di uno chef. L’attrazione è quella spaventosa fenditura nella crosta terrestre, lunga 450 chilometri e larga una trentina. La rimiriamo alla luce delle stelle la prima sera e il mattino dopo ci apprestiamo a seguirla nel suo percorso sinuoso.
Pian piano, la stranezza della situazione comincia a imporsi. In anni passati e in tutte le stagioni, anche sotto la neve, lo spettacolo della natura arrivava filtrato da quello della folla: decine di migliaia di persone colorate e vocianti in tutte le lingue (l’italiano era molto popolare), fra le quali occorreva districarsi e dietro le quali occorreva attendere pazientemente in fila per cogliere un barlume dell’abisso. Quando la neve non c’era, come adesso, scorrevano regolari i pullman per chi preferiva lasciarsi trasportare da una photo opportunity all’altra e le code per salirvi duravano un’ora; chi invece voleva camminare doveva scansare costantemente altri escursionisti. Il tono emotivo dell’intera vicenda era dominato dalla fretta: di raggiungere le destinazioni previste, di godere del panorama nei brevi istanti concessi dalla calca, di scattare un selfie prima che qualcun altro s’infilasse nell’inquadratura. Questo, però, era allora. Ora è tutto diverso.
Ora ci si muove in solitudine; se dopo un quarto d’ora s’incontra qualcuno, lo si saluta con simpatia e poi si prosegue per la propria strada, accompagnati soltanto da rocce millenarie e vegetazione fiorente. Le alci timide, che in circostanze «normali» sarebbero messe in fuga dal trambusto, brucano tranquille e si lasciano avvicinare. Regna il silenzio, reso più avvolgente dall’occasionale ronzio del vento o dallo strillo di un rapace, e in questo silenzio tutto sembra trovare, miracolosamente, il suo posto. Le rocce millenarie si assestano in una dimensione di raccoglimento che è loro consona; la vegetazione fiorente è in placida attesa dell’aria e della luce che la faranno fiorire anche domani. Due dei sensi della parola «tempo» s’incrociano e si rafforzano reciprocamente: il tempo come durata si estende sereno perché il tempo come ritmo, come scansione, ha rallentato il suo corso. E in un tempo rallentato a dovere gli eoni che hanno costruito il Canyon non sono più una curiosità un po’ frivola, un numero astronomico quanto incomprensibile: sono una presenza maestosa e incombente; se ne avverte la forza insieme cosmica e ctonia, quella forza che nel frastuono si nasconde, come si nascondono le timide alci.
La natura si è fatta avanti e ha pronunciato la sua legge, perché gli umani hanno paura. Nessuno ha proibito loro di venire qui; se fossero venuti come al solito, avrebbero creato qualche problema, sarebbe stato necessario indossare maschere anche fuori dalla lobby dell’albergo e praticare il distanziamento sociale, si sarebbero dovute ordinare più pizze surgelate e lattine di zuppa, ma ci si sarebbe arrangiati. Invece hanno deciso di non venire; ciò ha conferito a chi è venuto un piccolo privilegio, ma soprattutto ha liberato questo gigantesco contenitore dalla nostra comune invadenza, ha restituito l’ambiente alla sua pace infinita, lo ha calato nell’atmosfera di devozione familiare alle molte tribù native americane che vi abitavano, prima che Cárdenas lo «scoprisse», che Theodore Roosevelt ne facesse sterminare puma, lupi e aquile, che i tour organizzati lo trasformassero in uno stereotipo noto anche a chi non c’è mai stato.
È paradossale che un umano si congratuli per la quiete dovuta all’assenza degli umani e giunga ad auspicare che continui la loro lontananza da un sito di tale sacralità. Ma solo per caso mi sono sentito un umano in questi giorni, e comunque non ero io a contare. Erano le aquile (che sono tornate), erano le alci, erano le rupi scavate dal fiume, finalmente padrone a casa loro.