la Repubblica, 18 ottobre 2020
QQAN30 1QQAN40 Nell’abisso meraviglioso di Fellini
Ho passato molti anni della mia vita vicino a Federico Fellini. La finestra del mio studio era prossima – pochi metri di distanza attraverso una strada strettissima, che io amo molto – alla finestra dove aveva abitato Giulietta Masina, e poi anche il marito. Fellini era riminese; e riminese è anche Rosita Copioli, la quale ha scritto bellissimi libri: di poesie, da Splendida lumina solis, a Le figlie di Gailani e mia madre; di prosa, dai Giardini sotto le onde a Il nostro sistema solare; di storia, occupandosi di remote famiglie come i Malatesta. L’ultimo, Gli occhi di Fellini esce presso l’editore Vallecchi. È un libro splendido, quasi unico nella saggistica culturale italiana: sottile, profondo, enigmatico. Racconta molteplici incontri: libri, rapporti con la letteratura, amici scrittori, artisti, sceneggiature, musiche, progetti editi e inediti: infiniti aspetti del lavoro, della personalità, delle passioni di Fellini attraverso tutti i film. È il percorso critico rigoroso, di tutti i film del più grande regista del Novecento.
Sebbene Fellini fosse nato quasi esattamente un secolo fa (il 20 gennaio 1920), i suoi rapporti con la Copioli sono stati molto intensi. Fellini era una specie di fratello maggiore di Rosita Copioli, e il rapporto con lei non avrebbe potuto essere più stretto, affettuoso, talvolta abissale.
Il libro della Copioli è dedicato agli occhi di Fellini: quegli occhi strani e profondi, con le sopracciglia lunghe ed alte, mobili, ed arcuabili a piacere. Erano bovini, come i Greci chiamavano gli occhi della dea Era. Nello spazio di quattro secondi, quegli occhi passavano attraverso tutte le espressioni, i sentimenti, gli umori, i pensieri e le tenerezze: le ire, la noia e il disgusto, l’allegria, la gioia, la felicità del bambino, il disprezzo, le tenebre, la scintillante luce dell’anima radiosa, le ombre; ogni più labile o duratura sensazione d’affetto, ogni sfumatura dell’anima umana, forse ogni sentimento animale, perché Fellini apparteneva – io penso – anche all’amabile e terribile regno degli animali.
Avevano la proprietà delle nuvole di illuminare e di oscurarsi, di schiarire o di rarefare la luce, diventando luminosissimi, di una luce quasi intollerabile. Essi erano nuvole trascoloranti: inseguivano sia i cieli sia le nebbie, sia la pesante realtà quotidiana, sia gli innumerevoli libri che conservava nelle sue due biblioteche, le immagini della televisione, i suoni di un’orchestra illimitata che egli solo ascoltava; persino la pubblicità; ed i canali, i canaletti, gli alberi di Venezia, che Fellini considerava come una proprietà personale, specialmente quando volava in aereo sui giardini verdissimi. I suoi occhi erano molto densi: un velluto scuro e morbidissimo, lucidi e compatti. Non si arrivava mai al loro fondo: perché quegli occhi non avevano fondo: e questo non inquietava, ma attraeva, perché conteneva in sé un’immensa dolcezza. L’ho conosciuto molto bene; e non ho mai visto un viso così mobile, inquieto, assurdo, profondo. Qualche volta poteva perfino (apparentemente) sembrare malvagio. Ma non lo è mai stato.
Fellini era un abisso: come un pittore veneziano o veneto del secolo XIV o XV. Qualche volta, ricordava Goya. Com’erano prensili e lungimiranti, quegli occhi! La gente diceva che non era religioso. E invece aveva la profondità religiosa di un personaggio di Kafka. Il suo sguardo, a volte, assomigliava a quello dell’eroe del Processo, o agli introvabili, stupefacenti personaggi del Castello.
Aveva una grande conoscenza della letteratura. La notte non dormiva esplorando tutte le ipotesi e le fantasie possibili sui libri di Kafka. Nella mia vita ho conosciuto Gadda e Montale e Ungaretti. Nessuno scrittore o regista ha esercitato una influenza simile su di me.
L’ho amato, l’ho adorato. Non restava mai fermo. Mi portava dappertutto. A Cinecittà, ai Castelli Romani, in tutti i possibili ristoranti di Roma, specie quelli più nascosti e tenebrosi. C’era un rito. La sera del sabato (ma anche del venerdì) la macchina della produzione si fermava davanti al portone di casa mia e mi trascinava: chissà dove, certo lontano, lontanissimo. Cercava il segreto, il mistero. Molto spesso mi conduceva in una piccola sala, dove faceva proiettare le sue novità. Non ho mai subito da un uomo tanta attenzione immotivata: si occupava di me con amore e affetto; ed io, forse, provavo per lui qualcosa che assomigliava alla diffidenza: non so bene per quale ragione. Mi ascoltava, mi stupiva, mi eccitava. Mi parlava persino dei giornali quotidiani (che non leggeva), della Chiesa e del papa. Era una continua meraviglia. Aveva cominciato come allievo di Rossellini. Se ricordo una cosa angosciosa ed unica, è l’ultima parte di Paisà, con i partigiani emiliani uccisi e annegati dai tedeschi a Comacchio. Non ricordo nulla di più tragico. Perché Fellini portava in sé una parte tragica, sebbene questo dono non gli venisse normalmente riconosciuto. Era un grande visionario, come un romantico tedesco o inglese. Sosteneva di avere sempre girato lo stesso film: non era affatto vero: ne aveva fatti moltissimi e diversissimi; ma voleva sottolineare la propria durata.
Eppure le origini di Fellini sono quasi burlesche. Quando era ragazzo, faceva caricature delle signore milanesi sulla spiaggia di Rimini, collaborava al Vittorioso e a Flash Gordon, proiettandosi già alla ricerca del meraviglioso. Scriveva sul Travaso delle idee, e sul Marc’Aurelio, abbandonandosi alle più sfacciate frivolezze. Frequentava Aldo Fabrizi, che non gli assomigliava per niente. La sua forza era il minimo: proprio lui che possedeva la più robusta immaginazione cinematografica del tempo.
***
Di Rimini non so nulla o quasi nulla, malgrado le letture, anche del recente Rimini e Cesena di Franco Maria Ricci, con i testi di Antonio Paolucci, Rosita Copioli e Silvia Ronchey, un’opera eccellente oltretutto per le immagini superbe. Conosco però la storia di un mio carissimo amico, Raimondo Craveri, che vi si fece sbarcare in mezzo a centinaia di mine disseminate nella spiaggia, dove ebbe la grande fortuna di non saltare per aria.Non immaginate che Rosita Copioli assomigli a una signora francese del Settecento, come Madame du Deffand. Nessun inglese come Horace Walpole è sceso dall’Inghilterra per corteggiarla. Nessuna Madame de Stael è sua amica o complice. Non ha nulla di inglese o di svizzero. E tantomeno appartiene alla tradizione di Rousseau, sebbene abbia qualcosa di Leopardi e di Recanati.
Recanati è a due passi da Rimini, e lei andava a Recanati, esaminando la grande biblioteca di Monaldo e di Giacomo. Leggeva l’Infinito, La sera del dì di festa, Amore e morte. Ma Rosita Copioli è profondamente imbevuta dell’anima di Leopardi che ha studiato con grande attenzione, o come se nel suo intimo contenesse una parte delle infinite complicazioni di Leopardi.
Rosita Copioli aveva (o per meglio dire ha) una grande simpatia amorosa per Fellini, nel quale riconosce, come in Kafka il cuore della grande letteratura moderna, come scrisse Milan Kundera. Gli occhi di Fellini è un libro di grande sottigliezza e squisitezza, dove Rosita Copioli porta alla luce molte delle cose che Fellini ignorava di se stesso. È lei, non il regista, l’occhio di Fellini: ha uno sguardo straordinario e incomparabile. Qualsiasi lettore voglia comprendere La dolce vita o un film minore come Block-notes di un regista, deve leggere questo libro rarissimo. Intanto proprio in questi giorni, la Copioli ha esteso i limiti del suo mondo, sta riprendendo a scrivere poesie, compone prose enigmatiche e profonde, che raccomando molto caldamente a tutti i lettori di Repubblica.