Nel 1970, mischiando abiti, arte, gadget e libri, ha creato a Nottingham il primo concept store. Cosa l’ha spinta ad aprire un negozio del genere?
«Nessuna strategia, ero solo un ragazzo che pensava: “Ma perché non mettiamo un dipinto lì o delle ceramiche laggiù?”. Era un modo per attrarre clienti e trovare spunti di conversazione.
Incredibile che abbia preso piede».
Il suo è uno dei pochi brand indipendenti. Mai pensato di cedere a un grande gruppo?
«Sinora no, e me l’hanno offerto spesso. Amo troppo il mio lavoro e ho capito che, finendo nelle mani di chi usa la moda per fini economici, la mia vita potrebbe solo peggiorare. Per il futuro chissà, ma per ora è così».
Lei è noto anche tra chi di moda ne sa poco. Com’è essere una celebrità?
«Non per essere vanitoso, ma in Giappone sono una specie di fenomeno pop. Mi è capitato pure di dover scappare per non essere schiacciato da centinaia di persone che volevano incontrarmi. Un po’ come i Beatles!».
Allo stesso tempo però è considerato tra i più “normali” di questo settore. Come fa?
«Merito di Pauline, la mia fidanzata.
Anzi, dal 2000 è mia moglie. Stiamo assieme da quando ho 21 anni, lei mi tiene con i piedi per terra. Il successo è piacevole, ma la vita è altro: una buona colazione, una conversazione stimolante. Non si vive di sola moda».
Per i 50 anni del brand Phaidon le ha dedicato un libro, in cui lei ha selezionato 50 suoi oggetti simbolo, uno per anno. È stato difficile sceglierli per lei che colleziona di tutto?
«Per niente, mi è bastato concentrarmi su quelli che rappresentano un momento topico della mia vita. Per esempio, il primo è la macchina fotografica che mio padre mi regalò quando avevo 11 anni: è così che ho imparato a guardare il mondo con occhio artistico. Non mi andava di fare il classico tomo pieno di foto bellissime e basta, volevo qualcosa che appassionasse chi ama il design, la fotografia, la moda. A tutti gli altri suggerirei di evitarlo (ride, ndr ) ».
E poi ci sono tutte le mostre che le hanno dedicato nel mondo. Come ci si sente a vedersi in un museo?
«Vecchi. Scherzi a parte, è un onore. La cosa che mi inorgoglisce di più è che quella organizzata al London Design Museum nel 2012 sia stata la più visitata dalle scuole: bellissimo».
David Bowie, Rolling Stones, Led Zeppelin: li ha vestiti tutti. Come c’è riuscito?
«Facevo abiti che a loro piacevano, tutto qui. Negli anni 70 non era una questione di contratti e marketing, come oggi. Ho avuto successo perché la mia moda funzionava, mica perché investivo in campagne pubblicitarie. Figurarsi, per anni nemmeno l’ho avuto un budget per la pubblicità».
Crede che riuscirebbe a ripetere oggi tutto quello che ha fatto?
«No. Adesso se un designer in due stagioni non sfonda è fuori, come gli allenatori di calcio. Pauline e io abbiamo potuto fare le cose con calma, crescendo al ritmo giusto».
Pandemia a parte, come ha celebrato lo scorso 9 ottobre, l’anniversario dell’inaugurazione del negozio di Nottingham?
«Sa che non ci ho nemmeno pensato? Avrei potuto fare qualcosa di tipico, come una cena a base di fish and chips! Ma inutile struggersi: meglio pensare alle cose belle».