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 2020  ottobre 18 Domenica calendario

Intervista a Paul Smith

Tre metri quadrati. Tanto era grande il primo negozio che Paul Smith aveva aperto nel 1970 nella sua città natale, Nottingham, al numero 6 di Byard Lane. Chi l’avrebbe mai detto che quel ragazzo di 24 anni, 50 anni dopo, sarebbe stato uno dei mostri sacri dello stile inglese, con tanto di esposizioni dedicate al suo lavoro e uno stuolo di fedelissimi alla sua moda, sempre in bilico tra il classico e l’eccentrico. E pensare che tutto è iniziato quando è stato investito da un’auto a 17 anni: «Io volevo fare il ciclista, ma passò un anno prima che potessi ricominciare a pedalare: a quel punto non era più fattibile. Poi per caso conobbi degli studenti dell’accademia d’arte e mi appassionai al loro mondo, ma non so mica come sia arrivato fin qui. Per la verità non ho idea di come siano successe molte cose della mia carriera (ride, ndr)».
Nel 1970, mischiando abiti, arte, gadget e libri, ha creato a Nottingham il primo concept store. Cosa l’ha spinta ad aprire un negozio del genere?
«Nessuna strategia, ero solo un ragazzo che pensava: “Ma perché non mettiamo un dipinto lì o delle ceramiche laggiù?”. Era un modo per attrarre clienti e trovare spunti di conversazione.
Incredibile che abbia preso piede».
Il suo è uno dei pochi brand indipendenti. Mai pensato di cedere a un grande gruppo?
«Sinora no, e me l’hanno offerto spesso. Amo troppo il mio lavoro e ho capito che, finendo nelle mani di chi usa la moda per fini economici, la mia vita potrebbe solo peggiorare. Per il futuro chissà, ma per ora è così».
Lei è noto anche tra chi di moda ne sa poco. Com’è essere una celebrità?
«Non per essere vanitoso, ma in Giappone sono una specie di fenomeno pop. Mi è capitato pure di dover scappare per non essere schiacciato da centinaia di persone che volevano incontrarmi. Un po’ come i Beatles!».
Allo stesso tempo però è considerato tra i più “normali” di questo settore. Come fa?
«Merito di Pauline, la mia fidanzata.
Anzi, dal 2000 è mia moglie. Stiamo assieme da quando ho 21 anni, lei mi tiene con i piedi per terra. Il successo è piacevole, ma la vita è altro: una buona colazione, una conversazione stimolante. Non si vive di sola moda».
Per i 50 anni del brand Phaidon le ha dedicato un libro, in cui lei ha selezionato 50 suoi oggetti simbolo, uno per anno. È stato difficile sceglierli per lei che colleziona di tutto?
«Per niente, mi è bastato concentrarmi su quelli che rappresentano un momento topico della mia vita. Per esempio, il primo è la macchina fotografica che mio padre mi regalò quando avevo 11 anni: è così che ho imparato a guardare il mondo con occhio artistico. Non mi andava di fare il classico tomo pieno di foto bellissime e basta, volevo qualcosa che appassionasse chi ama il design, la fotografia, la moda. A tutti gli altri suggerirei di evitarlo (ride, ndr ) ».
E poi ci sono tutte le mostre che le hanno dedicato nel mondo. Come ci si sente a vedersi in un museo?
«Vecchi. Scherzi a parte, è un onore. La cosa che mi inorgoglisce di più è che quella organizzata al London Design Museum nel 2012 sia stata la più visitata dalle scuole: bellissimo».
David Bowie, Rolling Stones, Led Zeppelin: li ha vestiti tutti. Come c’è riuscito?
«Facevo abiti che a loro piacevano, tutto qui. Negli anni 70 non era una questione di contratti e marketing, come oggi. Ho avuto successo perché la mia moda funzionava, mica perché investivo in campagne pubblicitarie. Figurarsi, per anni nemmeno l’ho avuto un budget per la pubblicità».
Crede che riuscirebbe a ripetere oggi tutto quello che ha fatto?
«No. Adesso se un designer in due stagioni non sfonda è fuori, come gli allenatori di calcio. Pauline e io abbiamo potuto fare le cose con calma, crescendo al ritmo giusto».
Pandemia a parte, come ha celebrato lo scorso 9 ottobre, l’anniversario dell’inaugurazione del negozio di Nottingham?
«Sa che non ci ho nemmeno pensato? Avrei potuto fare qualcosa di tipico, come una cena a base di fish and chips! Ma inutile struggersi: meglio pensare alle cose belle».