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 2020  ottobre 18 Domenica calendario

Le bici da 16 mila euro di Danilo De Luca

DAI NOSTRI INVIATI
PESCARA C’è il mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. E poi, agli antipodi, c’è Danilo Di Luca, 44 anni, detto il «killer di Spoltore», il più grande talento del ciclismo italiano post-Pantani, una Freccia Vallone, un’Amstel, una Liegi, un Giro di Lombardia, un Giro d’Italia, nel 2007, vinto alla sua maniera: faccia tosta, fin troppo. Tre squalifiche in sei anni: la prima per frequentazione del discusso medico abruzzese Carlo Santuccione, la seconda e la terza, fatale, per uso di Epo. Il 5 dicembre 2013 il Tribunale nazionale antidoping emette la sentenza definitiva: radiazione. Capelli meno chiari di un tempo, stessi occhi freddi e intelligenti: «Nel club dei radiati siamo soltanto in due: io e un certo Lance Armstrong».
La seconda vita del biondino che s’iniettava Epo e Cera prima di andare a dormire (sei ore di anticipo sull’arrivo dei medici gli avrebbero dovuto garantire l’impunità ai controlli, non fu così) ricomincia dove tutto è iniziato: Pescara, una bella via del centro, negozio «Di Luca» di bici da corsa per appassionati con la Visa senza plafond. Prodotti d’eccellenza («Il telaio custom con le borchie di Gucci e Valentino costa oltre 16 mila euro ma li vale: è carbonio unidirezionale, il più pregiato»), clientela d’elite («Inglesi, danesi, spedisco molto a Miami, vorrei entrare presto nel mercato asiatico»), un profilo Instagram da 11.500 follower («Fondamentale: lì possono vedermi in tutto il mondo»), design suo («Papà falegname, fratello architetto, io faccio fruttare l’Istituto d’arte dove ero uno studente svogliato: la bici Mondrian è nata così»), un ingegnere che trasforma i disegni in progetti, gli stampi del carbonio a Taiwan, verniciatura a Padova e zero, assolutamente zero, rimpianti: «Sarebbe ipocrita, all’epoca tutti facevano quello che bisognava fare per vincere. Nel mio ciclismo era impossibile riuscirci senza doping: se volevi risultati, dovevi adeguarti o mollare tutto. E io volevo vincere, a qualunque costo, fin da bambino. Triste, tristissimo ma era così. Oggi è cambiato tutto, per fortuna. Non posso dire che l’Epo facesse bene, ma c’era modo e modo di assumerla: se ti facevi il giusto, non rischiavi. Chi esagerava o faceva le trasfusioni da solo si giocava la vita: di esempi ce ne sono fin troppi...». Il re delle vittorie sporche in uno sport zozzo? Manco per niente: «Vincevo perché ero il più forte. Se nessuno di noi si fosse dopato, avrei vinto lo stesso come avrebbe vinto Pantani, un fenomeno molto più forte di me: bastava vederlo pedalare per capire».
Alle pareti dell’ufficio, oltre ai telai e agli scarpini da 500 euro degni di una boutique di lusso, due foto: una grande del podio del Giro 2007, con il Trofeo Senza Fine in braccio (l’originale pende dal soffitto, recuperato e lucidato dopo anni in soffitta), un’altra dove Danilo sorride al fianco di un signore con gli occhiali e lo sguardo triste: Carlo Santuccione, medico condotto pescarese, il suo mentore, squalificato a vita dal Coni per procurato doping. «È morto tre anni fa, era il mio secondo padre. Per tutti lui era il dopatore, io il dopato. Liberi di crederlo. Ma Carlo era una persona magnifica, medico di famiglia di vecchio stampo che ha salvato molte persone. Ai miei tempi la questione non era se certi medici ti aiutassero a doparti o meno ma se tenessero alla tua salute quando chiedevi loro come doparti: lui mi amava come un figlio».
Quello che aveva perso, Danilo Di Luca ha saputo ricostruire: «Mi sono fatto male, però oggi faccio il mestiere che mi piace. Non essere più nel ciclismo mi dispiace ma non ho bisogno di quel mondo per vivere». Dice che desidera un figlio con la nuova compagna: «Ci stiamo provando...». E il biondo per un attimo s’illumina, ridandoci speranza nel potere taumaturgico della redenzione.