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 2020  ottobre 17 Sabato calendario

12QQAFM15 I reportage di Brian Phillips

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«Stavo guidando nel centro di Roswell, quando con mia sorpresa mi sono imbattuto in Gesù Cristo. Camminava per Main Street seguito da un gruppetto di discepoli. Procedevano in direzione sud, verso l’Ufo Museum». Questo ed altri incontri ravvicinati del terzo tipo sono all’ordine del giorno sulla leggendaria Route 66, che va da Chicago a Santa Monica.
Mother Road la chiamava Steinbeck. Per Kerouac era la via verso la fuga. Popolata di figure che esistono e non esistono, come le evanescenze di un sogno. O come le creature provenienti dallo spazio che il 4 luglio 1947 si sarebbero schiantate con la loro astronave proprio a Roswell, la cittadina del Nuovo Messico che da allora è diventata la terra d’elezione di presenze e parvenze soprannaturali, grazie anche all’omonima serie televisiva della Warner.
Per fare affiorare questo intrico di fantasie alla superficie del reale ci vuole una scrittura come quella di Brian Phillips, che nel suo nuovo libro Le civette impossibili, appena tradotto da Francesco Pacifico per Adelphi, trasforma questo laccio a due corsie appeso come una cintura ai due fianchi degli States, in un drive-in cosmico che tiene insieme il possibile e l’impossibile dell’America e non solo. Pagina dopo pagina si incontrano, truffatori da motel, fenomeni da baraccone, paccottiglia sciamanica, la caverna dove si rifugiò Jesse James, venditori di borse Navajo e rangers esperti di arti marziali che hanno visto gli Ufo. L’autore è attratto da quel carnevalesco squilibrato al limite tra quotidiano e straordinario e ha il suo emblema totemico nelle civette, protagoniste fin dal titolo. Del resto, gli uccelli notturni, i più compromessi con la coscienza sognante, con l’annuncio vaticinante, sono da sempre i messaggeri dell’impossibile. Interfaccia con un antimondo che esiste senza esserci. Non a caso, nota Phillips, questi rapaci sono di casa nei racconti di tutti coloro che sono entrati in contatto con gli extraterrestri. Come “ricordi-schermo”, impiantati dagli alieni nella mente delle persone per mascherare eventi reali. Per ricordare ciò che è dimenticato. Roswell e i deserti attraversati dalla Highway 66 sono proprio luoghi dell’oblio. Fanno pensare alla grande pianura di Lete che Platone nella Repubblica descrive proprio come una terra desertica, una landa torrida e afosa in cui l’anima dimentica tutto ciò che è stato.
Ma in generale tutte le cose e le persone incontrate da Phillips nel suo andirivieni attraverso universi vicini e lontani hanno qualcosa di familiare e di estraneo. Che siano feroci tigri indiane, misteriosi artisti russi, lottatori di sumo, maratoneti artici, la regina Elisabetta e Lady Diana, si trasformano tutti in interfaccia con l’invisibile, in riflessi dell’abbagliante shining che forma il nucleo incandescente della realtà, quello che T. S. Eliot chiamava il cuore della luce.
L’autore è stato un grande giornalista, autore di testi folgoranti per Grantland, la mitica rivista di reportage sportivi. Forse anche da questo sguardo agonistico e visionario deriva la sua magistrale capacità di trasfigurare persone comuni e fatti di ogni giorno in eroi, in creature fantastiche, in mostri, in ibridi sospesi tra una natura e l’altra. Negli otto reportage che compongono il libro, la narrazione corre sul filo di quel crinale che unisce e separa cronaca e storia, epica e lirica, mitologia e filosofia.
I racconti di Phillips sono pieni di pensiero. Ma è pensiero incarnato, zippato nell’osservazione estemporanea, nel particolare colto al volo, come dal finestrino di un’auto in corsa. E restituito vividamente con il plus di una scrittura veloce che dinamizza la realtà, la rende più scintillante. Ma anche profondamente riflessiva quando la fine del viaggio verso il West si trasforma in un’allegoria della vita e della sua destinazione finale. Dove i punti cardinali del mondo diventano uno solo. E alla mente di Phillips riaffiorano i versi di John Donne, il poeta inglese che parla della morte come un viaggio verso ovest dopo aver attraversato stretti pericolosi. « per fretum febris, by these straits to die, per questi stretti morire ». Dove la parola straits, esattamente come il latino fretum significa stretto ma anche febbre, tormento ma anche fermento. E allude a un passaggio vitale e mortale, all’obbligo di aggettare ponti di parole per andare oltre le parole. Come fa la scrittura di Phillips.