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 2020  ottobre 17 Sabato calendario

Quando l’artista rimane single. Il caso Fischli

BREGENZ (AUSTRIA) L’invito della mostra di Peter Fischli alla Kunsthaus di Bregenz è un’immagine del museo Guggenheim di Bilbao scaricata da Internet con sopra scritto “Bregenz”. È il primo innocuo dispetto che l’artista svizzero (classe 1952) fa al museo che ospita (fino al 29 novembre) la sua prima mostra personale da quando, nel 2012, la sua metà professionale, David Weiss, è scomparsa, azzoppando uno dei sodalizi più famosi e di successo del mondo dell’arte contemporanea: Fischli & Weiss. In otto difficili anni, Peter Fischli è riuscito a elaborare il lutto personale ed artistico della morte dell’inseparabile collega, ma più che altro amico, con il quale dalla fine degli anni Ottanta aveva iniziato a collaborare. «Mi sono dovuto mettere nello stato d’animo del giovane artista, facendo mostre in gallerie emergenti, provando a ricostruire una biografia solitaria e non più di coppia».
La mostra a Bregenz è il risultato di questa elaborazione. Lo spirito di Weiss appare in alcuni lavori come è normale, quasi che il nuovo Fischli abbia continuato un dialogo interiore con il vecchio compagno di strada. In generale, però, la mostra appare priva di rimpianto e malinconia, dispettosa e fresca al punto giusto. Una riflessione sul mondo delle immagini e degli oggetti dozzinali che popolano la quotidianità.
L’esposizione sembra davvero una serie di dispetti nei confronti dell’architettura del museo di Peter Zumthor, progettista svizzero, quasi oggetto di beatificazione e di culto. Il vetro e il cemento del magnifico edificio che riposa sulle rive del lago di Costanza sono esattamente l’opposto delle forme barocche di titanio del Guggenheim di Bilbao di Frank Gehry che Fischli ha usato per suoi cartoncini d’invito-omaggio a doppio taglio per Zumthor. È come se volesse dire: «il tuo museo è più bello, ma tutti conoscono il museo di Bilbao e nessuno sa nemmeno dove o cosa Bregenz sia».
Il secondo dispetto lo troviamo dentro la grande lobby del museo, più adatta ad accogliere il pubblico di una città asiatica che i quattro gatti della piccola cittadina austriaca. Fischli ha ricoperto di un legnaccio bianco da due soldi il design in legno pregiato della biglietteria. La mostra si potrebbe chiamare “Apologia del dozzinale”. Su uno schermo si vedono frammenti di immagini realizzate con le videocamere Go-Pro, quelle che si installano sui caschi quando si scia, si va in bicicletta o ci si diverte in altre attività normali o estreme, a seconda dei gusti.
Dopo un po’, si capisce che le immagini sono state catturate da altri schermi, quelli di un negozio tipo mediastore di elettronica: il rischio e l’avventura riportati alla banale normalità di un negozio di televisori. Fischli attraverso queste riprese prova a raccontare il terrore contemporaneo di dover dimostrare di esserci a tutti i costi. L’artista cita e si identifica con Don Chisciotte, il personaggio che per primo aveva immaginato attraverso i libri – come noi oggi attraverso i social – una realtà che di fatto poi non esiste. Al secondo piano, infatti, si potrebbe dire che la collezione di scatole, sacchetti e lattine tutte fatte in cartone e dipinte come fossero di materiali originali, ferro, carta sono come la bacinella che Don Chisciotte indossa illudendosi che sia un elmo. In mezzo a questa folla di sculture, lo spettatore può convincersi che siano veri contenitori, o come li definisce l’artista «il fantasma dell’autentico».
Il secondo piano è dedicato a ventiquattro variazioni – tra sculture e bassorilievi – di un disegno raffigurante una scimmia, realizzato da Fischli per uno zio quando era bambino e ritrovato per caso recentemente. Il soggetto ripescato nella propria memoria pre Fischli & Weiss è forse l’indizio più chiaro del forte desiderio da parte dell’artista di intraprendere una nuova vita artistica. Assieme alle scimmie, ci sono foto scattate con il cellulare di atti di “microvandalismo”, ovvero luoghi “sporcati” con della schiuma da barba da qualche gruppo di adolescenti ubriachi il sabato sera. Innocui e snervanti dispetti prodotti da una noia non esistenziale, ma provinciale. Peter Fischli è infatti il grande cantore di un provinciale esistenzialismo o di un esistenzialismo provinciale. Il suo è il tentativo di nascondere il nobile e di nobilitare l’insignificante.
Come accade al terzo e ultimo piano del bunker di culto di Zumthor, dove sulle pareti sono appesi grandi pezzi di carta con i contorni bruciati, semi- monumentale risultato di un’attività inutile, oppure i portadepliant della mostra di solito in plexiglass fusi in bronzo, come avrebbe detto Sant’Agostino: una sorta di niente dotato di spazio e di volume. Una mostra questa difficile da definire.
Apparentemente semplice, ma molto complicata emotivamente. L’ultimo passo di una storia che diventa il primo di un’altra. Quella che era una passeggiata adesso per Peter Fischli è diventata un viaggio.