Sette, 16 ottobre 2020
Incontro con David Hockney
Ha scelto un orizzonte solare, più a sud rispetto alla Manica. E ha fatto il tragitto inverso di Guglielmo Il Conquistatore, che attraversò quel canale per dominare la sua isola, diventando re d’Inghilterra nel 1066. A Bayeux un’opera su lino finemente ricamata e attribuita alla regina Matilde, lunga 70 metri, ricorda quell’audace impresa. Lì vicino, in un paesello della Normandia, in una campagna dolce e sinusoide, a una quarantina di chilometri dal mare di Honfleur, una strada sterrata porta a una seicentesca tipica casa a graticcio. Tutto qui corrisponde a un paesaggio ideale che David Hockney, 83 anni, uno dei più celebrati pittori al mondo, cercava. Complice lo scrittore Jean Frémon, il suo gallerista parigino che ha una casa in questi dintorni, e che ieri alla Galerie Lelong&Co ha inaugurato la personale dell’artista, con i dipinti che qui pubblichiamo.
Ma dipingere oggi paesaggi non è un po’ rétro? «I don’t care. Non m’interessa. In sé stesso il paesaggio non può essere né old fashion né noioso, ma i dipinti sì. Ma chi dice che oggi non si possano dipingere paesaggi dice un’idiozia. Il mondo dell’arte è un po’ stupido. Ricordo un tempo quando dominava l’astrattismo e io mi ritenevo un artista periferico, ma anche allora questo non m’importava. E adesso non mi sembra di essere visto come un artista marginale, o no? Ma io non sono cambiato, sono gli altri ad essere cambiati».
È uno degli artisti viventi più pagati al mondo, un suo noto quadro del 1971 - il ritratto di Sir David Webster (il soggetto vestito di verde su sfondo azzurro-polvere siede davanti a un vaso di tulipani fucsia screziati, nella foto sotto) - andrà in asta da Christie’s il 22 ottobre, messo in vendita dalla Royal Opera House di Londra per sostenersi in questa difficile crisi. Due anni fa un suo dipinto Portrait of an Artist (Pool with Two Figures, 1972 ), raffigurante una delle sue famose piscine, raggiunse in asta da Christie’s a New York, in soli 9 minuti, la cifra record di 90,3 milioni di dollari. Ma neppure qui, sull’aia, poteva mancare una piscina californiana. Solo che non è fatta per nuotare. L’artista è intervenuto su un blocco di cemento preesistente dipingendolo di azzurro, con un intreccio di riflessi gialli che simulano quelli dell’acqua, facendone una scultura.
La prima volta che andò a Los Angeles era il 1964. Dall’edonismo delle piscine californiane all’intimità di questa campagna in Normandia, c’è un salto di vita. «Ma i pittori non possono essere degli edonisti, sono solo dei gran lavoratori. Ciò che facevo quando dipingevo quelle piscine era in realtà affrontare un problema grafico: come si dipinge l’acqua? La sua trasparenza? La fotografia riesce a cogliere questo molto bene, anche se i miei dipinti sono meglio. Non mi piacciono poi tanto i colori fotografici. La fotografia allontana le cose (mentre in pittura i colori le avvicinano) ed è stata un’invenzione dei chimici per fissare un’immagine, ma la macchina fotografica è molto più vecchia, deriva da un piccolo foro e si origina dall’ottica. Ora tutti sono fotografi per via del cellulare, e così adesso la fotografia è piatta. Mentre la fotografia analogica è prospettica».
Però anche questo medium ha fatto parte della sua ricerca artistica, perché disconoscerne le sue potenzialità? «Se come diceva il filosofo Jacques Derrida la pittura è morta, e tutto ciò che rimaneva per descrivere il mondo era la fotografia, penso che questa non sia abbastanza buona, e che la pittura sia molto molto meglio».
Però lui ha sempre parlato di una “lotta” irrisolta con la tela. «Sì, è senza fine. La tela è lenta, con l’iPad posso dipingere il cielo con la stessa rapidità di come cambia realmente; davanti alla tela devi muoverti in continuazione, l’iPad è smart. Il cielo si muove sempre ed è veramente difficile da catturare. Ci sono anche qui dei cieli tersi blu, altri giorni ci sono meravigliose nuvole piccole, grandi, alte, basse, e ho imparato a raffigurarle. Provo sempre molta gioia nel farlo. Molto spesso dipingo guardando fuori dalla finestra dello studio, altrimenti anche all’aperto. La fotografia è un clic su qualcosa d’infinito per riuscire a vedere come il mondo è fatto. Ma com’è veramente il mondo? Non credo proprio assomigli a una foto. Brunelleschi era un architetto e la prima immagine prospettica è stata l’architettura, Santa Maria del Fiore. Mi piacerebbe tornare in Italia a Firenze, ma non ho tanta voglia di viaggiare».
Conosce un po’ di italiano per via dell’opera lirica di cui ha firmato diverse scenografie.
«L’ultima volta che venni in Italia incontrai Sgarbi, era circondato da donne, ricordo molto bene che mi lasciò il conto della cena da pagare. Ho 83 anni e qui in Normandia ho trovato un ambiente, un soggetto che può tenermi occupato per tutto il resto della mia vita». Questo calmo dipingere gli alberi in tutte le stagioni è lo scorrere del tempo, e non a caso sta rileggendo la Recherche di Proust. La differenza tra il cielo di Los Angeles (dove ancora ha un atelier) e quello della Normandia Hockney la spiega così: «In California è molto più blu, c’è molto più sole, e le nuvole compaiono poche volte. L’altra sera quando sedevamo qui e il sole stava tramontando (a Los Angeles questo dura 10 minuti mentre qui un’ora), nel crepuscolo gli alberi erano violacei. Io so osservare i colori, chi lo fa solo occasionalmente non so che cosa veda. Molte persone non guardano al mio stesso modo. Finché conservo la vista non m’importa del mio udito (sono quasi sordo, ma adesso nella mia testa c’è molta musica, un po’ come Beethoven). Quando raffiguro le persone guardo tutto ma specialmente occhi e bocca, questa di solito è la più difficile da disegnare. Ho smesso di fare scenografie nel 1992 perché ci sentivo sempre meno, e nelle opere che facevo volevo che la gente vedesse la musica, e penso di esserci riuscito. Feci un Tristano e Isotta impiegando un anno a realizzarlo, e tutto ruotava attorno al colore e alla luce. Tutto questo lavoro per sedici spettacoli! che ho visto, ognuno un po’ diverso».
Entri nel suo atelier ricavato dal fienile e c’è un bigliettino adesivo, un gentile ammonimento corredato da un disegnino: «Guarda con gli occhi, non fotografare». I suoi più recenti dipinti, fatti su tela o sullo schermo dell’iPad, hanno per soggetto gli alberi del suo giardino ritratti nelle quattro stagioni. La dendrocronologia ci ha svelato molto sulla vita millenaria degli alberi, spesso passati anche attraverso piccole glaciazioni. Cosa insegna la vita degli alberi su noi uomini? «Che ciascuno è diverso. La Natura non si ripete». Poi, nei suoi dipinti, c’è l’elemento costante delle nuvole. «Oh, sì, sono sempre in movimento e d’estate sono sempre più grosse. Amo molto la primavera. Arrivai qui per la prima volta nel marzo 2019. Non sapevo distinguere un albero di mele da uno di pere. In realtà volevo dipingere la primavera ma mi sono “distratto” lavorando a un lungo leporello composto da 24 opere - una panoramica attorno alla mia casa dove c’è uno stagno - impiegandoci molto tempo. Così mi sono prefisso di dipingere l’arrivo della primavera nel 2020. E quando il lockdown è arrivato non ero affatto dispiaciuto, significava non vedere più nessuno, e lavorare qui alacremente».
Nel 1986 Hockney disegnò per la prima volta su un computer grande quanto una stanza, poi ha via via incorporato nuovi mezzi nella sua pratica artistica: la camera lucida nel 1999 (inventata nel 1806 dallo scienziato William Hyde Wollaston), poi iPhone e iPad. E ora è tornato al quadro sul cavalletto. Come se in questa fase della sua vita la tela fosse lo strumento più innovativo.
«L’iPad è uscito nel 2010, prima disegnavo con il mio pollice sull’iPhone. Io dipingo veramente sull’iPad. Guardi come faccio». Prende uno stiletto e mi mostra a ritroso come realizza l’opera memorizzata. «In questo modo durante il lockdown ho realizzato 118 lavori, uno al giorno. E questo sarà il nucleo della mia mostra alla Royal Academy di Londra nel 2021. Ho osservato ciliegi, meli, peri e li ho dipinti con i rami spogli, poi con dei piccoli germogli, dei boccioli, poi con i fiori e con le foglie e questi alberi sono migliori di quelli che dipinsi anni fa nello Yorkshire, hanno più germogli. Mi sono subito accorto che l’iPad era molto intrigante: potevo disegnare l’alba stando a letto, osservandola dalla finestra che è una perfetta cornice. Per dipingere non dovevo accendere la luce essendo uno strumento retroilluminato, potevo raffigurare il cielo prima che il sole sorgesse, cogliendo questo momento in modo molto rapido. Un grande vantaggio. Se avessi acceso la luce avrei guastato quella naturale».
Qui in Normandia vive in semplicità David Hockney anche per sfuggire alla pressione di Londra che ne ha fatto un’icona. Ma volentieri accetta gli inviti a colazione di Queen Elizabeth. «Non ricordo cosa ho mangiato l’ultima volta, ma era molto buono e non troppo abbondante. Però ho ben presente l’apparecchiatura della tavola. In tasca avevo uno di quei miei libriccini a fisarmonica su cui disegno. L’ho mostrato alla mia vicina di tavola, che mi disse “deve farlo vedere alla Regina”. E così la sovrana esclamò: “Lei è l’unico uomo che può avere un lavoro in tasca”».
In questa zona gourmand della Francia, Hockney si concede volentieri qualche peccato di gola, conoscendo tutti i migliori ristoranti, stellati e trattorie. «Ieri sera ho mangiato delle deliziose cosce di rana. Ma tra le ostriche e la sogliola alla mugnaia preferisco quest’ultima, perché c’è tanto burro!», e ride come un bambino felice. «Venticinque anni fa il mio medico mi fece fare un esame al pancreas e mi raccomandò di non esagerare con nulla e di preferire al mattino il caffè decaffeinato. Bevo un po’ di vino, champagne qualche volta, ma non ho mai bevuto molto, non ho mai fatto uso di troppe droghe, ma ne ho anche prese nel momento in cui tutti le prendevano. Sono contento di essere vissuto in un’epoca permissiva e non con questo puritanesimo », dice accendendosi l’ennesima sigaretta che poi schiaccia sul pavimento con le sue sneaker rosse. «Monet fumava, Picasso fumava, Matisse fumava e anche io fumo. Negli aerei quando si poteva fumare si cambiava l’aria ogni venti minuti, adesso ogni due ore. Il tabacco cresce sulla terra mentre il petrolio deriva dalle sue profondità, e adesso che per un certo tempo non abbiamo avuto traffico, la gente si è resa conto che i gas di scarico delle auto non sono certo salutari, però ho scoperto che la gente che fumava non si beccava il Covid. Ma questo non lo dicono, perché non possono dire nulla di positivo sul fumo, the Health Police!».
Ma siamo nell’era no smoking... «Non per me. Il fumo ha una bella gestualità. Il tabacco è delizioso. Ho 83 anni, i miei polmoni sono ok, il mio cuore pure. E così vado avanti, perché io non sono uguale ad altri, siamo tutti diversi, come fiocchi di neve. E poi di questo Covid (non sono preoccupato, vivo qui lontano da posti affollati), i medici non ne sanno mica troppo. Ma allora perché sono così sicuri di altre cose? In Gran Bretagna e negli Usa demonizzano il fumo, e se si demonizza qualcosa si finisce poi anche col farlo con le persone. Adesso per esempio è il turno dello zucchero. Ci vogliono togliere la dolcezza dalla vita».
Demonizzare le persone, diceva. «In Germania non hanno demonizzato il tabacco perché un tempo hanno demonizzato le persone. Non è certo un bene. Io dico che bisogna amare la vita. Noi siamo tutti gli stessi, ma tutti un po’ diversi. Sono solo un artista che ha voluto rappresentare il mondo, che è meraviglioso». E ciò che oggi lo irrita di più della nostra società è la corruzione. «E la decadenza delle regole in qualsiasi sistema politico, ecco perché non sono veramente interessato alla politica». Celebri sono i suoi ritratti e autoritratti, un genere che dipinge dal 1954. Quando Lucian Freud, altro grandissimo pittore inglese, volle ritrarlo, Hockney posò per lui 100 ore. Non l’avrebbe mai fatto per nessun altro se non per lui, quello era per David un modo per capire e carpire la straordinaria tecnica del collega.
Ma da quale maestro del passato gli sarebbe piaciuto farsi ritrarre? «Da Rembrandt e dal Beato Angelico. Amo le sue opere, hanno una tale nitidezza! Così come quelle di Van Gogh. Entrambi avevano una visione chiara del mondo, io non so se ce l’ho, ma cerco di averla. L’ultimo autoritratto l’ho eseguito circa due anni fa, lo faccio quando ritengo sia tempo di guardare ancora una volta in me stesso. A volte mi dicono: “Quando lei si ritrae è sempre un po’ imbronciato”. Ma quando guardi veramente dentro di te, non puoi sorridere».
I dipinti della mostra Ma Normandie alla Galerie Lelong di Parigi (fino al 23 dicembre) rivelano anche quanto il pittore, con questi paesaggi, sia debitore della pittura e dei colori di Van Gogh, e come l’astrazione (pochissime sue tele si avvicinano a questo genere) sia qualcosa di lontano dalla sua sensibilità ma per lui interessante materia di studio. «L’astrazione è stata necessaria all’arte europea per via dell’ombra. Quella extraeuropea (cinese o giapponese) non la contempla. L’ha notato? In una stampa giapponese non vedremo il riflesso del ponte. L’ombra derivò dall’ottica, che venne molto prima della fotografia. Nel 2000 andai a Firenze per fare un esperimento e studiare la prospettiva della Cupola del Brunelleschi. Avevamo un pannello della stessa misura di quello usato da Brunelleschi, andammo all’interno del Duomo e con uno specchio concavo abbiamo proiettato il battistero sul pannello. Sono certo che è quello che anche Brunelleschi fece, lui conosceva quel tipo di specchio e lo utilizzò per risolvere dei problemi progettuali nel duomo. Anche qui in campagna ci sono molte ombre che indicano lo scorrere del tempo. Cinesi e giapponesi non conoscevano ombre e riflessi perché il loro paesaggio non è quello che si osserva da una finestra ma nel quale si passeggia, non avevano bisogno dell’astrazione perché già la conoscevano. Le rocce con i loro colori, un albero vicino a una cascata possono essere visti come qualcos’altro ».
Le undici nuove opere più una serie di stampe a getto d’inchiostro esposte nelle tre sedi della galleria Lelong (in quella di Matignon troviamo i due lunghi panorami - in inverno e in estate - attorno alla casa, realizzati come gli antichi rotoli della tradizione pittorica cinese), sono quasi tutte solari. Tranne una, quella dello stagno ( Some Smaller Splashes), dove le gocce, verde su verde, formano cerchi concentrici ricordando le ninfee dipinte da Monet. Il paesello di Beuvron-en-Auge, con le case dai tetti rossi e grigio ardesia, è come un’arena semicircolare ed è uno dei suoi luoghi preferiti. C’è un’unica concessione all’intimità casalinga, raffigurata in due dipinti, il camino con il fuoco acceso e poi spento. Poi il ritratto del suo studio, e il fantastico Ruby dreaming, con i sogni del suo cane. Nei suoi dipinti, anche in questi ultimi, c’è la totale assenza di dramma. «E perché no? È meglio provare gioia, è necessario averla, sono felice che lei veda questo nei miei dipinti».