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 2020  ottobre 16 Venerdì calendario

Intervista a Stefano Boeri

«Ho spesso detto e scritto che per il mio lavoro ho imparato più da mio padre che da mia madre» dice Stefano Boeri, 63 anni, architetto, urbanista, padre del Bosco Verticale (riconosciuto dal Council on Tall Buildings and Urban Habitat il grattacielo più bello e innovativo del mondo), professore di progettazione urbanistica al Politecnico di Milano, presidente de La Triennale Milano. Ma anche: figlio di Renato Boeri, noto neurologo (morto nel 1994) e di Cini Boeri, scomparsa da poche settimane, famosissima architetta e designer, nonché staffetta partigiana durante la Resistenza (a spiegazione di quel carattere forte, caparbio).
«Ho scritto di aver preso più da mio padre, non era vero» ammette Boeri. E in questa retromarcia, quasi pudore, sta tutta la storia di una famiglia che ha rappresentato e rappresenta Milano, contribuendo direttamente a crearne la bellezza. Una famiglia poco appariscente, persino nei sentimenti. Così Cini, invitata da un giornale a commentare il Bosco Verticale del figlio, dice: «Niente di eccezionale».
Reazione di Stefano Boeri?
«Era la sua tendenza a ridimensionare tutto. Diceva: “Mi preoccupa che i miei figli siano toppo sicuri di sé”».
Sbagliava?
«No».
Perciò ammirava il Bosco Verticale?
«Credo che non la esaltasse. Lo trovava bizzarro, interessante, ma non di suo gradimento».
Eppure all’inaugurazione.
«Diceva: “Merito mio, sono sua madre”».
Lavorato insieme?
«Un’unica volta. Io avevo 29 anni, era il mio primo lavoro. Dovevamo costruire una casa in Svizzera».
Esito?
«Mesi di litigi, non eravamo d’accordo su niente. Io volevo un grande tetto con tre pareti, lei no. Di base io partivo dall’esterno, lei dall’interno».
Alla fine?
«Vinse lei. Rimase un tetto abbastanza esteso da condizionare la distribuzione interna, comunque non come lo volevo io. Diciamo che il mio progetto ha fatto del male al suo, e il suo al mio».
Conclusione?
«Eravamo entrambi prepotenti. Siamo stati dei grandi prepotenti».
Un oggetto ereditato da lei?
«A casa ho la sua poltrona Ghost. Una poltrona tutta di vetro, meravigliosa, sebbene non comodissima».
Regalo suo?
«Regalo dell’azienda produttrice dove sono andato sette anni fa».
Non si tratta di quella originale?
«Mia madre non faceva investimento sul passato. Non si curava dell’archivio dei suoi lavori, tantomeno gli oggetti veri e propri. Di suo, creato da lei, a casa aveva poco. Ha lasciato scritta una frase: “Compro, dunque sono”».
Filosofia di vita?
«Era proiettata sul futuro istantaneo. Guardava immediatamente a quello che stava succedendo, o stava per succedere. Digeriva i lutti con una facilità impietosa».
Solo lutti?
«Lutti e separazioni. Per lei il matrimonio doveva durare cinque anni, poi scadeva».
Quando si separano i suoi?
«Io avevo dieci anni, l’anno in cui fu finita la casa in Sardegna, alla Maddalena. Detta casa bunker».
Perché casa bunker?
«All’inizio in modo dispregiativo dalle persone dell’isola. Non capivano il senso di questa piccola costruzione a forma di bunker».
Anziché la villa con piscina?
«Al tempo, negli Anni Sessanta, al mare si realizzavano case che ricordavano i crostacei. Sempre in Gallura c’è quella che Michelangelo Antonioni fece costruire per Monica Vitti durante la loro storia d’amore. Una cupola, centoquaranta metri quadri. Simile alla nostra come concezione».
Case piccole.
«La borghesia milanese del Dopoguerra, i professionisti come i miei genitori, non ricercavano l’immagine, rifuggivano l’ostentazione. C’era molto understatement che comportava anche una certa ipocrisia, riconosco. La mancanza di coraggio a esplicitare direttamente i desideri».
Da come parla, lei si è emancipato da quel understatement : villa con piscina?
«No».
La vorrebbe?
«Mai».
Dunque sua madre costruisce la casa in Sardegna.
«Il bunker era un modo simbolico per proteggere la famiglia. Poi invece l’esplosione avvenne all’interno».
Lei si accorge dell’esplosione?
«Esistono delle foto di noi bambini con nostra madre sul cantiere in Sardegna. In realtà io scattavo: non ci sono, eppure ci sono. Foto di loro scattate da me».
Sensazione?
«Che stava venendo su una casa per noi senza papà».
In che modo quella casa rappresenta la sua infanzia?
«Intanto lì c’è mia madre. La sua idea di coabitazione e di libertà. Per lei marito e moglie dovevano avere due stanze separate. Progettava solo case con stanze separate».
E i figli?
«La casa è fatta di quattro corpi autonomi che sono le camere da letto. Autonomia per tutti, figli inclusi».
Stefano Boeri bambino.
«Con mio fratello Tito giocavamo a calcio nel sagrato della Basilica di Sant’Ambrogio. Avendo due genitori atei, era il nostro modo di frequentare la chiesa: senza entrare».
A scuola?
«Ero l’unico a non fare religione. Ricordo qualcuno che disse: “Poverino, è ebreo”. Era ancora troppo presto per considerare la possibilità dell’ateismo, di una famiglia atea».
Il momento in cui decide di diventare architetto?
«In un viaggio con mia madre negli Stati Uniti. Avevo quattordici, quindici anni».
Che successe?
«Visitammo un centro di ricerca vicino a San Diego, a strapiombo sul mare, disegnato da Louis Kahn. Il mare non si vedeva, si intuiva. Sentivi che appena dietro c’era l’oceano. Camminando sul lungo braccio ho pensato: “Se l’architettura è questo, se riesce a far sentire presente una cosa che non c’è...”».
Anni dopo s’iscrive a Architettura.
«Ho cercato di non farla. Troppo ingombrante la presenza di mia madre. Così per un periodo mi sono pensato in altri modi».
Per esempio?
«Oceanografo. L’unica scuola però era a Nizza, e io non volevo allontanarmi da Milano».
Quindi Architettura.
«Mentre mia madre era una creativa strepitosa, principalmente designer, io ho scelto Urbanistica, e ho fatto molta teoria».
Tentativo di distanziarsi?
«Lei è stata sempre presente come esempio e limite, anche in un certo senso ostacolo. Termine di contrapposizione, termine di paragone».
E adesso?
«Non lo so».
Suo padre.
«Era un neurologo con la passione per la psicologia. Laico nell’uso dei farmaci, studiava le malattie croniche. Il mio modo di vedere la città deriva molto da lui, dal suo sguardo: quel rapporto fra neurologia e psicologia. Noi architetti dobbiamo sì occuparci del guscio, costruire il fuori, per farlo però è necessario conoscere le aspettative, i desideri, addirittura gli incubi degli abitanti».
Un desiderio di Stefano Boeri?
«Mio padre portava me e Tito bambini a Taggia, vicino Sanremo. E io che leggevo Il barone rampante pensavo che gli alberi descritti da Calvino, gli alberi di Cosimo, fossero esattamente quelli che vedevo anch’io».
Nasce da lì la passione per la natura?
«Non è una passione ecologica, piuttosto un’ossessione precisa per gli alberi. L’idea di guardare il mondo attraverso i rami».
Cosa sono per lei gli alberi?
«Individui, uno diverso dall’altro. Prima di arrivare al Bosco Verticale ci sono stati altri tentativi di portare gli alberi in architettura, in città».
Per esempio?
«Il Metrobosco: una cintura verde intorno a Milano, fatta di boschi, parchi, filari. Un progetto di foresta metropolitana già in parte realizzato e oggi rinato con ForestaMi. Grazie a questo la città potrà ricevere più ossigeno, essere protetta dall’inquinamento, e godere di un clima migliore».
Nel 2007 il compito di realizzare i due edifici nel quartiere Isola.
«Ero a Dubai coi miei studenti a osservarne lo sviluppo. Mi chiedevo come fosse possibile che esistesse una simile follia: palazzi di vetro in mezzo al deserto, considerando che il vetro riflette il calore nella città».
Conseguenza?
«Negli stessi giorni, a ascoltare un convegno noiosissimo, disegnai la torre di alberi».
Reazione dei committenti?
«Di scetticismo: come fa un albero a crescere a cento metri di altezza? E anche: che succede con il vento forte? Tutte domande a cui, insieme a botanici e strutturalisti, ho risposto. In generale si è trattato di insistere molto».
A quel punto?
«Sono seguite ricerche, numerose e costose, come la prova alla Galleria del vento in Florida».
Ovvero?
«Lì testano in scala 1 a 1 le raffiche di vento. È stato fatto un test con un albero vero, in un vaso, all’altezza giusta. Successivamente abbiamo fatto le ricerche per un nuovo sistema di irrigazione, devo molto alla coerenza di Manfredi Catella, il developer che ha accettato la sfida».
Oggi?
«Abbiamo imparato come fare a costruire questi edifici a costi bassi. Stiamo realizzando un Bosco Verticale in Olanda, il primo progetto di social housing . Gli appartamenti verranno dati in affitto a coppie giovani».
Consapevole di aver realizzato qualcosa di rivoluzionario?
«Era un’ossessione, e le ossessioni sono scavi a prescindere dagli esiti. Ho avuto anche l’ossessione di fare il sindaco di Milano».
E?
«Mi è del tutto passata».
Mai entrato nel Bosco Verticale abitato?
«Da un anno il mio studio ha affittato un piccolissimo appartamento al quattordicesimo piano».
Guardare il mondo attraverso i rami come Cosimo?
«Il barone rampante sull’albero fa tutto: incontra i banditi, s’innamora. Invecchia. Scompare all’orizzonte: aggrappandosi alla cima penzolante di una mongolfiera».
La fine ideale?
«Sì, sparire oltre gli alberi».