Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  ottobre 16 Venerdì calendario

Intervista a James Fallon

Non a tutti viene da chiedersi ad un certo punto della vita, e con cognizione di causa, «Perché non sono diventato un serial killer?». A James Fallon, professore di psichiatria e comportamento umano dell’Università della California, è successo. E, ovviamente, si è dato una risposta da esperto qual è. E questo sarà il tema dell’incontro di Fallon a BergamoScienza, in videoconferenza, oggi alle 21.
Professor Fallon, veniamo al punto: cosa l’ha salvata dall’essere un serial killer?
«Probabilmente l’aver avuto una buona famiglia e una buona educazione. Quindi, sebbene io abbia tutti i tratti basilari di uno psicopatico, e anche i risultati di diversi test in merito, non raggiungo i livelli di uno psicopatico clinico. Tecnicamente, seppur per qualche millimetro, sono "normale"».
Come ha scoperto di essere uno psicopatico mancato?
«Nel 2005 mi è stato chiesto di analizzare 70 risonanze cerebrali, tra cui alcune di assassini di vario tipo. Quando abbiamo controllato a chi corrispondevano le risonanze è emerso che i killer psicopatici avevano una perdita di funzionalità in alcune porzioni del cervello sociale - come il sistema limbico e la corteccia orbitale - associata alla violenza, al senso morale e all’empatia. Ho quindi iniziato a fare sei seminari su questo tema. Poi nel 2006 ho realizzato degli altri studi su risonanze di pazienti con Alzheimer e mi è stato chiesto di eseguire una risonanza come soggetto di controllo, insieme con i miei familiari».
Qui è iniziato il problema: è così?
«Esatto. È emerso che la mia risonanza e le mie varianti genetiche erano equivalenti a quelle di un assassino psicopatico, incluso un sistema limbico "spento", vale a dire l’insieme delle strutture associate alle emozioni. Geneticamente, perciò, sono uno psicopatico, ma, forse, grazie ad un’infanzia felice, in me questo aspetto non è mai stato epigeneticamente marcato».
Come ha reagito quando si è accorto che era la sua risonanza?
«Ho riso. Ma questa è la mia "natura"».
Si può allora dire «natura 0-ambiente 1». È così?
«Sembra che per i disturbi di personalità del cosiddetto "Cluster B" come le psicopatie - il disturbo antisociale di personalità secondo il Manuale Statistico Diagnostico dei Disturbi Mentali -, i borderline o le personalità narcisiste, le categorie che si caratterizzano per le condotte di comportamento violente o eccentriche, le più letali, insomma, si debba verificare una tripla combinazione: è la presenza di genetica, connettività cerebrale e una storia di abusi, abbandoni o traumi infantili che fa sì che i disturbi stessi si sviluppino».
Ci fa un esempio?
«Per i maschi in giovane età, ad esempio, l’assenza del padre è critica. Quindi, nel caso si abbiano i markers biologici, cioè geni e connessioni, è estremamente importante l’ambiente nelle fasi precoci della vita. Al contrario, se mancano questi geni, l’ambiente importa meno».
Vale lo stesso per i disturbi sociopatici, più impulsivi ed imprevedibili nel loro comportamento?
«E’ diverso. Il comportamento antisociale dei sociopatici può svilupparsi a seguito di abusi, come il bullismo, anche in individui non geneticamente predisposti. A differenza degli psicopatici, che hanno uno scarso ragionamento morale e poca empatia, i sociopatici hanno una coscienza che dice loro che ciò che stanno facendo non solo è illegale, ma immorale. Per questo possono sentirsi colpevoli di un’azione, consapevolezza che gli psicopatici non provano».
Esiste un modo per cambiare il destino di un futuro serial killer?
«Rinchiuderlo in prigione. Non c’è terapia che sembri funzionare su uno psicopatico adulto a lungo termine, ad eccezione della lobotomia. Forse una combinazione di editing genetico e psicoterapia cognitivo-comportamentale potrebbe funzionare».
Qual è, invece, il suo «verdetto» per disturbi psichiatrici più lievi, come depressione, ansia, schizofrenia o disturbi alimentari?
«Per molte malattie psichiatriche esistono trattamenti efficaci. I disturbi della personalità, invece, sembrano essere più resistenti alle cure: forse perché alla base ci sono cambiamenti cerebrali nelle connessioni corticali e cortico-limbiche. Queste, al momento, sono irrecuperabili».
Quale scoperta nelle neuroscienze potrebbe neutralizzare un futuro serial killer?
«Un editing genetico mirato a correggere le alterazioni nella connessione tra specifiche aree cerebrali, come la corteccia prefrontale ventromediale o quella del cingolo anteriore».
Quali sono le implicazioni etiche?
«Realizzato in modo reversibile, su Rna mirati e localizzati e su base volontaria, l’editing potrebbe essere un potente strumento terapeutico per particolari tratti caratteriali debilitanti, come l’aggressività e specifiche forme di mania. Ma si aprirebbe, giustamente, una questione etica, soggetta all’analisi sui rischi e sui benefici per ogni individuo».
Se potesse intervenire su uno o più geni con la tecnica Crispr, opererebbe il giovane James Fallon?
«Creerei una start-up dedicata al "gene editing", mirata su particolari neuroni e sul loro Rna, la cui attività si può accendere e spegnere, così da modularne le connessioni. Si potrebbero quindi "accendere" aree specifiche che sono spente, inducendo un’inibizione di particolari istinti. Oggi lo stiamo già sperimentando e aspettiamo di depositare un brevetto».
Sarebbe diventato lo stesso il famoso neuroscienziato che è ora?
«Non cambierei nulla della mia vita… finora. Un po’ di follia può aiutare sia nella creatività sia nella vita».