La Stampa, 16 ottobre 2020
Le proteste dei ragazzi thailandesi
Zainetto, grembiule, e fiocco nei capelli raccolti come ci si aspetta dalle docili studentesse thailandesi, Ying e Noey sono venute dritte da scuola per l’unico compito che conta ora: insultare il primo ministro e pure il re che dovrebbero adorare, e rifare la Thailandia daccapo. Il «Paese dei sorrisi» è spaccato: figli pro-democrazia contro genitori e nonni cresciuti col mito della monarchia. E semi piantati da anni stanno sbocciando ora tutti assieme, creando una minaccia esistenziale per un sistema di potere incapace di rinnovarsi.
«Non abbiamo paura. Questo è il nostro momento», dice Ying, 16 anni, riunita ieri sera con altre migliaia di giovani di fronte al centro commerciale Central World.
In un sabato qualsiasi sarebbe lì a fare shopping e postare selfie su Instagram, ma ora rischia l’arresto sfidando lo stato di emergenza proclamato dal governo del generale Prayuch Chan-ocha dieci ore prima. Decapitando la protesta con l’arresto di 20 leader ieri mattina, il regime contava di aver spento il rogo anti-governativo divampato negli ultimi mesi. Ma i ragazzi non hanno recepito il messaggio, e continuano a gridare «Abbasso la dittatura!».
In Thailandia tira un vento rivoluzionario senza precedenti. Dagli anni Settanta, di sollevamenti popolari contro governi militari a Bangkok ce ne sono stati diversi. Ma nessuno aveva tra le proposte quella che c’è ora: togliere poteri al re, controllare le sue spese, recidere il legame tra la monarchia e un esercito che si vanta di essere il suo primo difensore. Per la Thailandia è un muro che crolla, uno choc che manda in cortocircuito la stessa identità nazionale, che la propaganda statale ha sovrapposto per decenni all’adorazione incondizionata del sovrano.
La scena simbolo della fine di un’epoca è il passaggio della limousine di re Vajiralongkorn tra i manifestanti vicino alla sede del governo, due giorni fa. La folla si stringe attorno all’auto, da dietro il finestrino la regina Suthida sorride e saluta timidamente. Poi parte il coro, ripetuto: «Le nostre fottute tasse!». Il grido di giovani che per la retorica monarchica sono fieri di essere «polvere sotto i piedi» di un sovrano discendente del Buddha, ma che invece vedono solo un uomo di 68 anni giunto al quarto matrimonio, che passa undici mesi all’anno nel suo auto-esilio dorato in Germania, anche ora che l’economia del Paese è in ginocchio per il coronavirus.
Tra due visioni di Thailandia così inconciliabili, non ci può essere dialogo. E qualsiasi speranza che ci fosse è morta lo scorso febbraio, quando la magistratura ha sciolto il partito "Nuovo Futuro", quello che votavano i giovani. Uno schiaffo per gli oltre sei milioni che l’avevano votato: la prova che il sistema è pronto a tutto per difendere l’indifendibile. Tra i manifestanti gira una maglietta con la scritta «Quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa dovere». Sono andati a scuola di rivoluzione assorbendo referenze pop dell’ultimo decennio: le tre dita alzate contro la dittatura in "The Hunger Games", il mantra «Che i bastardi non ti schiaccino» de Il racconto dell’ancella. Sui social media, sfidando la legge sui reati informatici, pullulano hashtag anti-militari e anti-monarchia sempre più baldanzosi.
È in sostanza un risveglio delle coscienze senza precedenti, anche per la sua rapidità. Per decenni, in una Bangkok dove regna il consumismo, i giovani erano apatici. Essere interessati alla politica era un biglietto diretto verso l’emarginazione sociale; in un paio d’anni è diventato "cool". E non è solo la richiesta di tornare al voto con una nuova Costituzione. È l’intera organizzazione gerarchica dalla società thailandese a essere sotto accusa, a partire da un sistema educativo che insegna obbedienza e omologazione, spegnendo i cervelli invece di accendere la curiosità. Non a caso, il collettivo che vuole una scuola nuova si chiama "Bad Student". Ormai, all’inno nazionale prima delle lezioni, persino i quindicenni alzano le tre dita simbolo della protesta.
In questo clima da «se non ora, quando?», la coscienza politica e storica si sta diffondendo in fretta. Con le proteste di Hong Kong c’è una sorta di gemellaggio anti-dittatura. Ma ancora più destabilizzante per il regime è il parallelo con il "Partito del popolo" che nel 1932 costrinse l’allora re a porre fine alla monarchia assoluta. Le magliette con la targa commemorativa di quella rivoluzione, simbolo di un tempo di speranza poi tradito, sono tra le più vendute.
Impossibile capire ora come finirà questo spirito rivoluzionario. Gli ostacoli politici, istituzionali ed economici sono enormi. Il sistema di militari e grandi famiglie che comandano il Paese, lucidando le loro credenziali di monarchici modello, ha troppo da perdere. Nessuno adora Vajiralongkorn come venerava il padre Bhumibol, il "re dei re" che ha guidato la Thailandia per sette decenni; ma rimane il sovrano a capo di una piramide da cui discendono cascate di potere di cui beneficiano in tanti, e per questo i conservatori lo difendono come se si trattasse della loro sopravvivenza. E vedendo le immagini degli insulti al re, gli sale la rabbia.
Il regime finora ha tollerato con le buone, ma già i 41 arrestati in neanche 48 ore fanno capire che la pazienza si sta esaurendo. Altri giovani leader, agli albori di questa ondata di dissenso, sono stati picchiati da scagnozzi in pieno giorno e da allora sono rimasti defilati: trovare balordi a pagamento che diano una lezione a chi insulta il re non è difficile. La storia thailandese è piena di ex attivisti pro-democrazia che alla fine emigrano sconfitti, umanamente a pezzi, a volte uccisi all’estero.
Ma a lungo termine, c’è aria di inizio della fine. Da una parte un re senza rapporto con la popolazione e un governo di impresentabili dinosauri. Dall’altra, una generazione di giovani che sognano una nuova Thailandia: democratica, tollerante, moderna. E che non credono più alla favola che hanno raccontato alle generazioni precedenti. Per Ying, Noey e i loro figli, chiudere gli occhi e tornare a essere sudditi obbedienti non sarà più possibile.