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 2020  ottobre 16 Venerdì calendario

Mattia Perin: «Non sono l’untore del calcio italiano»

Mattia Perin è stato il primo anello della catena di contagi del Genoa, 17 calciatori in tutto. Ora il portiere è guarito e ha ripreso ad allenarsi. Ha accettato di raccontare a Repubblica la paura, l’amarezza, la solitudine e la rabbia che questo tempo sospeso gli ha provocato, cominciando da un concetto chiave: «Non sono l’untore del calcio italiano».

Perin, come cominciò?
«Era la settimana prima di Napoli-Genoa. Il 21 settembre mi recai a Torino per rivedere mia moglie e i bambini, era un lunedì: al contrario di quanto è stato detto, non esiste alcuna evidenza che io abbia contratto il Coronavirus proprio quel giorno».
Quando ha cominciato a stare male?
«Il mercoledì seguente ci sottoponemmo ai tamponi, come sempre. Il risultato arrivò il giovedì mattina: tutto okay. Ma la sera avevo la febbre».
Si sente responsabile di qualcosa?
«E perché? Questa è una malattia subdola, la puoi prendere in taxi, oppure schiacciando il bottone di un ascensore. Nella mia famiglia sono tutti negativi. La verità è che in una dozzina di ore cambia il quadro clinico, neppure gli specialisti sanno molto del Covid 19. E sia chiaro che il caos di Juve-Napoli non è iniziato per colpa del Genoa».
Ma voi calciatori non siete un po’ troppo disinvolti nei vostri comportamenti?
«Al contrario, siamo molto scrupolosi. Nessuno toglie la mascherina, rispettiamo regole e distanziamenti, poi è chiaro che in campo veniamo a contatto, è inevitabile».
Perché è successo proprio al Genoa?
«Poteva accadere a chiunque. Di sicuro, se ci fossimo chiamati Real Madrid, Inter o Juventus, saremmo stati rispettati di più. Sia chiaro che la malattia non è mai una colpa, ma un’eventualità che accade agli esseri umani».
Però chi non rispetta i protocolli può favorirla.
«Basta con i cliché del calciatore ricco, viziato, privilegiato e menefreghista! Ho letto giudizi molto superficiali».
E Cristiano Ronaldo che si fa i selfiein mezzo ai compagni senza mascherina?
«Si è ammalato lui, si è ammalato Trump, vuol dire che il Covid 19 è micidiale e va preso più che sul serio».
Eppure ci sono i negazionisti.
«Gente senza coscienza».
Non crede che continuare con il calcio internazionale sia troppo pericoloso? Cosa pensa di una “bolla” in stile basket americano?
«Con i miei compagni se ne parla, nessuno di noi è così esperto da sapere cosa sia meglio, però qualche sacrificio in più credo sia indispensabile. Giocare ogni tre giorni ci ha consumati dentro».
Giorgio Chiellini, il capitano della Nazionale, ha detto che il calcio deve andare avanti e che voi giocatori siete pronti a prendervi qualche rischio.
«Ha ragione. Il calcio non è solo uno svago, un passatempo: come dice Sacchi, è la cosa più importante tra le meno importanti. I miei nonni e i miei genitori avevano un bar in un quartiere popolare di Latina, io sono cresciuto ascoltando discussioni sul calcio e ho capito cosa rappresenta per tanta gente».
Ma senza pubblico che calcio è?
«Tristissimo. Gli stadi vuoti mi fanno piangere il cuore. La pandemia ci ha dimostrato che i tifosi sono essenziali quanto e più degli atleti, compresi i tifosi avversari».
Lei cos’ha fatto durante la quarantena?
«Mi sono allenato a casa ogni giorno. Sono rimasto da solo con me stesso, finalmente. Ho pensato, ho vissuto un tempo neutro. Ho letto libri di psicologia del comportamento. Ho elaborato alcuni dolori e aspetti della mia vita passata, cose che un po’ vilmente avevo sempre rimosso perché facevano male. Sbagliavo».
E alla fine, cosa ne ha ricavato?
«Che persino due legamenti crociati saltati non erano niente. E che voler tornare prima in campo, preoccuparmi troppo del tempo che passava, dei risultati, delle mie prospettive di carriera erano solenni minchiate. Diciamo che ho ricollocato alcune cose nella loro giusta prospettiva».
Cos’ha pensato, quando le hanno comunicato di essere positivo al tampone?
«Mi sono detto: Mattia, non potevi farti mancare anche questa. Ma ho cercato di essere positivo in tutto, compresa la reazione psichica».
Più difficile per il corpo o per la mente?
«Siamo giovani, siamo atleti allenati e ne usciamo bene, però questa è una brutta bestia, subdola. Se dicessi che non mi ha destabilizzato un po’, mentirei».
Da malato, che idea si è fatto della pandemia?
«Resto convinto che tutto sia nato in laboratorio e non dalla trasmissione animale».
Ha avuto paura?
«La paura ha garantito la sopravvivenza alla specie umana. Però no, non c’è mai stato panico e devo ringraziare lo staff del Genoa, i dirigenti, il dottor Piero Gatto che si è ammalato pure lui e ci seguiva da casa, oltre al professor Matteo Bassetti del San Martino di Genova che ci ha fatto da angelo custode».
Lei che rapporto ha con le malattie?
«Noi atleti siamo un po’ tutti ipocondriaci, il corpo è il nostro strumento di lavoro e lo vogliamo tarato sempre alla perfezione. Ma se un infortunio lo metti in conto, per le malattie è diverso. E questa è differente da tutte. Infida, come ogni nemico sconosciuto».
Si dice: la malattia ci rende migliori. Esagerato?
«Migliori non so, diversi di sicuro. Quando si soffre, si smette di essere ragazzini».