Corriere della Sera, 16 ottobre 2020
Il profugo fondatore: Enea (un saggio di Guidorizzi)
Enea è un profugo, dice Virgilio all’inizio del poema a lui dedicato. E come tale, con un pugno di uomini sopravvissuti alla distruzione della comune patria naviga per volere del Fato verso Occidente, percorrendo gli stessi mari sui quali vaga Ulisse. Ma la differenza tra i due è sostanziale: Ulisse cerca e infine trova la sua piccola isola. Enea non cerca e non può trovare una patria per sempre scomparsa. Quello che cerca è un luogo dove stanziarsi e quello che troverà è una terra destinata a diventare la patria dei suoi figli e dei suoi nipoti. A questo si aggiunge il fatto che sulle sue spalle, oltre al fatum , grava un potere reale e incombente, quello di Augusto, che vuole dal più grande dei poeti la creazione di un eroe romano da contrapporre alla tradizione luminosa di quelli greci. E Virgilio, nella bellezza inimitabile dei suoi esametri, il vertice più alto della lingua latina, cerca di accontentare il suo committente nel modo in cui lui solo può farlo, con la raffinatissima sensibilità e la malinconia esistenziale che sempre venano le sue pagine. Quante vite, quanto dolore in esse: Didone, Turno, la vergine Camilla, i Troiani uccisi con la loro città… Sunt lacrimae rerum , dice uno dei versi più belli dell’Eneide «ci sono le lacrime delle cose». Ma malgrado tutto, al di là di tutto, i profughi trovano una terra dove stanziarsi, e con gli antichi abitanti di questa formano un unico popolo.
È un punto forte del mito di Enea, questo: i Romani vollero che il loro fondatore fosse non solo uno straniero, ma anche un profugo, un advena, uno «che viene da fuori», accompagnato da fuggiaschi che avevano rischiato mille volte di scomparire per sempre nelle acque che erano stati costretti ad attraversare.
Come ricorda Seneca, il fondatore dell’Impero romano aveva dovuto superare molte difficoltà per trovare una terra ancora abitata da indigeni: tutto, come egli osserva, è il risultato di commistioni e di innesti. E la riscrittura di Giulio Guidorizzi (Enea, lo straniero. Le origini di Roma, Einaudi) tende a recuperare proprio questo lato della storia: il suo Enea non è l’eroe «pio», l’uomo che deve rinunciare a tutto per obbedire al destino che vedrà Roma capitale del mondo.
In questo libro Enea è profondamente umano e anche, diremmo, profondamente solo: salva il vecchio padre perché salvare i vecchi significa salvare la propria memoria e quindi la propria speranza; lascia Didone ma ha il cuore lacerato, cerca sempre qualcosa e non sa se la troverà.
Salva il padre perché salvare i vecchi significa salvare la propria memoria, lascia Didone ma ha il cuore lacerato, cerca sempre qualcosa e non sa se la troverà
Ma questa storia di un’anima – potremmo definire così l’Enea di questo libro – viene proiettata su uno sfondo che caratterizza il racconto degli eventi inserendolo nel quadro dei valori più profondi della latinità arcaica.
Studioso di antropologia del mondo antico, Guidorizzi intreccia la storia personale di Enea con una serie di idee e di rituali che formavano l’impasto della civiltà romana: la nozione di sacer, ad esempio, che indicava una cosa o una persona allo stesso tempo sacra e impura, e che pertanto, se vivente, poteva essere impunemente uccisa; i rituali del pater familias per scacciare i fantasmi dalla casa e per purificare i campi; la corsa dei Luperci, uomini che, coperti da un perizoma e armati di bastoni, durante la festa che ogni 15 marzo purificava la città dagli influssi maligni, percuotevano le donne al fine di garantir loro la fecondità; o il feroce rito del «re del bosco», e altro ancora.
Erano i valori tradizionali della cultura italica, quelli che Virgilio amava veramente: il mondo dei contadini che piantavano alberi, allevavano api e vivevano circondati dalle loro ancestrali credenze magiche. Pur vivendo in un’epoca di splendore culturale Virgilio non aveva dimenticato le sue più antiche radici, alle quali accenna soltanto, ma che il suo pubblico conosceva bene e il libro di Guidorizzi esplicita, restituendo lo sfondo culturale del mondo da cui nacque Roma, ripercorrendo in filigrana alcune delle varianti mitiche dei viaggi di Enea e introducendo spunti narrativi ispirati a Virgilio ma capaci di creare situazioni letterarie originali, come l’episodio delle Arpie o la descrizione della presa di Troia.
È un libro, questo, in cui la parte saggistica e quella narrativa coesistono, come nei precedenti libri dell’autore, che con questo conclude una trilogia dedicata alla riscrittura dei grandi poemi epici della classicità: l’Iliade in Io Agamennone, l’Odissea in Ulisse, l’ultimo degli eroi, e infine l’Eneide in Enea, lo straniero, che si chiude con la nascita di un orizzonte: Romolo e Remo salvati dalla lupa e la cesta che li conteneva che scende vuota sulla corrente del Tevere, sino alla foce, dove l’acqua dolce si confonde con quella salata.