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 2020  ottobre 15 Giovedì calendario

1QQAFA11 Intervista a Ermanno Cavazzoni

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«L’assassino prima di essere scoperto aveva ucciso il detective che in realtà era già stato ucciso». Lo scrittore reggiano Ermanno Cavazzoni, classe 1947, vincitore del Premio Campiello con La galassia dei dementi (2018), che all’esordio con Il poema dei lunatici (1987) ispirò l’ultimo film, La voce della luna, di Federico Fellini, ha creato un giallo talmente sui generis che è il morto a condurre le indagini per scoprire chi lo abbia ucciso. È stata sua madre? Lo ha sostituito con un altro identico a lui, ma artificiale? 
Il protagonista de La madre assassina (La nave di Teseo, 176 pagine, 18 euro) Andrea Pacini, 22 anni, narratore del romanzo in terza persona, una mattina si sveglia e non si sente più lui. È l’unica certezza che matura. Il rapporto con la madre, che lo chiama micino, è malsano. L’indagine sul delitto di cui è vittima, ambientato nella periferia di Milano e raccontato con umorismo nero che Pacini porta avanti, cerca di comprendere la sensazione di artificialità, intende ritrovare il corpo e determinare cosa sia accaduto. Gli indizi si intrecciano e Pacini fabbrica ipotesi, vede complotti che alimentano la trama. Teme che gli diano da mangiare proprio il suo corpo. Come in altre sue opere, Cavazzoni varca il confine del genere letterario, gioca con i paradossi e produce uno straniamento nel lettore.
Quale idea le ha suscitato il personaggio di Pacini?
«Ho immaginato una specie di poliziesco, perché c’è il morto. Non manca qualcuno che indaga su chi l’ha ucciso, però chi svolge le indagini è il morto stesso. Ho creato un cortocircuito che viene risolto con delle sorprese».
Perché esplora la relazione tra una madre e un figlio?
«Mi hanno sempre colpito le sfumature del rapporto. In genere, l’autorità dominante è attribuita al padre, ma credo che spesso lo sia la figura materna».
In quale modo?
«A volte la madre esercita con apparente delicatezza delle forme di ricatto e indirizza le scelte del figlio, che non sempre se ne accorge. Nella storia che narro, quando quest’ultimo comprende la situazione, sente che c’è qualcosa di orribile nascosto dalla madre dietro la parvenza dolce».
Cosa produce il senso di sdoppiamento del protagonista?
«La domanda del romanzo è dove sia finito il vero sé. Senza accostamenti, è la situazione che appare nel bellissimo Memorie del sottosuolo di Dostoevskij. È costretto a comportarsi come non vorrebbe. Si percepisce come un altro da sé stesso. È stato sequestrato, ucciso: chi è stato? I sospetti ricadono sulla persona che lo domina, la madre, e su una congiura di condominio capeggiata da lei».
Sembra affascinato, in termini letterari, dai condomini.
«Sono piccole comunità nelle quali c’è qualcosa da scoprire. La realtà del condominio come luogo che nasconde delitti efferati è moderna. Potremmo dire che nasce con Edgar Allan Poe. Il condominio è un bel luogo per ambientare un giallo, un horror: l’idea che nella casa più normale, civile, magari di ben pensanti, si celi un omicidio, il morto sepolto, la cantina in cui è stato murato il cadavere».
Che cosa si nasconde nelle case che abitiamo?
«Il delitto spesso si cela nella normalità. Le persone che lo compiono vengono definite dai vicini quasi sempre come normali. Nella convivenza condominiale tra pressoché estranei l’insospettabile è il più sospettato».
Quanto occorre allontanarsi dalla famiglia in cui si è nati?
«La famiglia è una cosa bella, quando la si rimpiange come un’infanzia piena di attenzioni. Da adulti, posando uno sguardo da fuori, nell’affrontare la vita piena di lotte tendiamo a mitizzare i ricordi migliori, nei quali una persona si ricrea. Tanti invece non si allontanano mai abbastanza da essa. Può diventare terribile, perché non si cresce».
Qual è il rischio?
«I ruoli e le situazioni sono fissate. È un carcere, quando la famiglia ti blocca dentro di sé, anche senza restarci fisicamente. È essenziale vivere la propria esistenza in un altrove».
Pacini cerca di individuare il complotto di cui sarebbe vittima. Ci siamo fatti prendere la mano dal complottismo?
«Non mi appassiona. Per chi ne scorge ovunque è un guaio: sono segni di leggera paranoia. Non è un bel modo di porsi quello di considerare il mondo come un nemico organizzato e segreto».
A livello letterario?
«È uno stato d’animo prolifico che produce letteratura e crea trama. Immergersi in un complotto orienta la vita e la storia narrata diventa una battaglia. Nella realtà invece mi preoccupa la scarsa lucidità dei complottisti».
Qual è il suo senso per le vicende di cronaca nera?
«Resto colpito quando ascolto qualche efferato atto di violenza sulle donne. Mi scuote molto quando ricorre la notizia di un infanticidio commesso da una madre. È un evento che tendiamo a rimuovere».
Ha creato un giallo così atipico perché non li ama?
«Non mi considero un giallista. Li leggevo, quando ero adolescente. Vi trovo il limite che non si rileggono, a parte certi grandi romanzi polizieschi. Una volta svelato l’intreccio non si prova più attrazione».
Che cosa significa saper giocare con i generi?
«Fra i miei ultimi libri ce n’è uno di fantascienza, anche questo abbastanza anomalo per il genere. Il giallo ha un’identità forte ed è amato dai lettori. I generi mi piacciono molto, perché offrono allo scrittore degli obblighi. Non perdersi nello spazio sconfinato dell’invenzione è bellissimo. Non rinuncio alla libertà, mentre osservo dei limiti utili».