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 2020  ottobre 15 Giovedì calendario

Vicidomini, “Il più grande comico morente” è tra noi

Quando sentirete parlare di Nicola Vicidomini sarà tardi. Non perché lui è “il più grande comico morente”, dunque già morto nel futuro prossimo. Sarà tardi perché era obbligatorio accorgersene prima, capire che nella selva dei comici gnè gnè, titolare di quella tristezza televisiva del sabato sera, Vicidomini, con la sua carica animalesca, il ronzio dei suoi verbi imperfetti, l’indagine acustica sui rumori dell’uomo, è una creatura assolutamente fuori registro, fuori passo dai tempi che corrono.
Vicidomini è l’energia primordiale dell’homo ridens. La sua carica belluina, il suo rap gutturale, le sue battute non lo fanno assomigliare a nessuno dei suoi colleghi (colleghi?) in attività. L’unico uomo di teatro sconosciuto ai più, che ha raccolto su di sé una vasta e forbita opinione critica. È in libreria il libro (Il più grande comico morente, Mimesis edizioni) che raccoglie una vastità abbastanza spettacolare di pareri illustri, di competenze tecniche che descrivono le capacità indiscutibili e per lo più cavernicole, con le quali il nostro Vicidomini racconta i piani bassi dell’umanità, le vicende con le quali l’uomo deve fare i conti. Ora Fauno, ora Scapezzo (titoli dei suoi spettacoli, dati in piccoli teatri ma sempre andati sold out) il nostro Nicola conta la realtà assegnandole posti visionari, dirupi esistenziali, sgarrupati, scapezzati.
Lui disorienta, rimuove, reinventa la fonetica e la lingua. Non è un Benigni del sud, qualità che gli deriverebbe dall’essere nativo di uno dei luoghi più belli della Costiera amalfitana, cioè Tramonti, un paesino che ha i suoi piedi sul culmine della collina e guarda il mare dall’alto, estraneo a esso, immerso nella civiltà rurale della propria tradizione.
Cochi Ponzoni e Nino Frassica, che lo omaggiano di una riverenza particolare, di una devozione singolare verso le sue performance comico-fisiche, al suo bagaglio verbale di contumelie contadine che riversa sul palcoscenico dove lui e il suo corpo, ora vestito di stracci e ora anche di niente, affronta la filosofia della vita. Ecco brevemente – per capirci – cosa fa dire a Fauno, un suo fortunato personaggio: “La persona più distante da me stesso sono io. Odio le sensazioni che provo. Ho gusti molto differenti dai miei. Politicamente la penso diversamente. Nonostante tutto non riesco ancora a dormire in camere separate (…) Mi seguo pure quando vado in bagno. L’unica cosa positiva di questo rapporto è che non siamo riusciti ad avere figli”.
Direte: è puro non sense! È di più, secondo me: perfida ma sottile linea che illustra, nel caos delle simulazioni impossibili, la vita di tanti, lo scoramento di tanti.
Vicidomini non è solo ancestrale, non emette solo mugugni per assomigliare a quell’uomo di Neanderthal che la sua postura riesce a offrire. Mugugna, irride, spoetizza, sviscera, slabbra perché racconta la piccolezza dell’uomo, la sua a volte oscena esistenza. Nei testi critici raccolti da Enrico Bernard, ciascuno degli studiosi aggancia a Vicidomini un aggettivo, o anche una definizione di specie. Chi lo vede amorale, chi solo umoristico, chi visionario, chi anche animale. Chi filosofo, chi sociologo del caos, chi scimpanzé di teatro, saltimbanco, procuratore di risata.
Vicidomini, che dentro di sé ha una carica esplosiva di vitalità e forza fisica, si danna l’anima per farsi vedere, notare, per far sorridere ma anche ragionare.
Si uccide di fatica sul palco, e alla fine, stramazzando di gusto, muore di felicità.