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 2020  ottobre 15 Giovedì calendario

Intervista a Simonetta Agnello Hornby

C’erano una volta gli Uzeda, i Salina, i Florio, c’erano le grandi famiglie, aristocratiche o alto borghesi, che raccontavano storie di potere, ricchezza e declino.
Saghe, reali o immaginarie, che hanno segnato una fetta di letteratura evocando sfarzo, affari, polvere e altari. In questo scenario irrompe adesso Piano nobile , il nuovo romanzo di Simonetta Agnello Hornby (edito da Feltrinelli) che vede protagonista il casato gattopardesco dei Sorci: un affresco a più voci con un barone giunto alla fine di una vita da padre-padrone e un drappello di figli e nipoti allevati nel lusso ma divisi da amori clandestini e gelosie, mentre fuori dal palazzo di famiglia cominciano i bombardamenti degli Alleati.
Tutto il resto lo fa una Sicilia di tradizioni secolari, di pranzi sontuosi, di colori esotici che da sempre caratterizza la produzione di Agnello Hornby.
Torna il tema della famiglia, già al centro di altri suoi romanzi: è innegabile che dai "Viceré" ai "Leoni di Sicilia" la letteratura italiana è stata attraversata dalle storie delle saghe siciliane. Che fascino esercitano secondo lei queste grandi famiglie?
«La famiglia è il centro di tutto, in tutto il mondo, in tutte le culture: senza famiglia non esistiamo — dice la scrittrice palermitana trapiantata a Londra, baciata dal successo sin dall’esordio con La mennulara — è il covo dei guai e il giardino delle delizie. In questo libro spero di avere dato un’immagine delle sofferenze e delle ingiustizie vissute all’interno delle famiglie aristocratiche, specie in Sicilia, dove si ricreava una colonizzazione nei nuclei familiari. Spero che il mio libro non venga giudicato come una glorificazione delle famiglie aristocratiche. Semmai tengo al tema dell’omosessualità: c’è un ragazzino gay che alla fine viene accettato. C’è tanto bigottismo attorno a lui, scarsa cultura ma c’è un parente che crede in lui».
Ma la storia di queste famiglie, l’ascesa, il declino, la lotta per il potere, le eredità difficili, sono un paradigma, uno specchio dell’Italia?
«Nonle vedo come un paradigma, sono storie che affascinano: l’essere umano è curioso di quello che fa il vicino, vuole sapere quello che succede nelle famiglie. In Inghilterra, dove vivo da tanti anni, c’è una curiosità morbosa verso la famiglia reale.
Ognuno di noi ha una madre e un padre e vuole sapere di più del loro passato: e questa la trovo una curiosità sana, legittima. Sono un avvocato di minori e la famiglia è il campo in cui ho lavorato: ho visto abusi sessuali e psicologici, ho visto gli orrori delle famiglie ma senza famiglia non si può vivere».
Nella scelta di raccontare una famiglia nobiliare quanto conta il suo vissuto personale, l’appartenenza a una famiglia blasonata?
«Fino alle medie non sono andata a scuola, avevo una bambinaia ungherese che mi insegnò il tedesco che volli dimenticare quando seppi degli orrori nazisti. Stavo spesso in cucina dove ascoltavo le storie, i pettegolezzi: allora le persone di servizio erano importanti, mangiavano assieme alla famiglia, una torta di compleanno si divideva con loro.
Per questo romanzo ho frugato nel nostro archivio e ho trovato una quantità di conti di Frette, che vendeva tessuti per posta: con le ferrovie si mandava merce ovunque, si pagava al capotreno, era una sorta di Amazon di allora. Questo rapporto commerciale della Sicilia con il Continente fu un battesimo dell’Unità d’Italia».
Un personaggio di "Piano nobile" dice che in famiglia bisogna usare la stessa diplomazia della politica…
«Il patriarca, come il barone Sorci del mio libro, è un amministratore delegato: la famiglia ha bisogno di un capo e ha bisogno di norme».
Le "fimmine", le donne, nel suo libro stanno un passo dietro agli uomini o sono prede sessuali, però sono il motore delle vicende: una condizione femminile bifronte…
«La donna in casa ha potere e può distruggere i figli maschi. In un Paese dove non le è riconosciuto un ruolo la donna esercita il suo potere in famiglia. E può essere un potere accettato o nascosto, subdolo, malsano, a secondo dei casi. Dopodiché, che i padroni abbiano fatto i porci con le donne di servizio lo sappiamo tutti».
Ci sono tantissimi personaggi nel suo romanzo ma forse la vera protagonista è la sua Sicilia, con i suoi riti immutabili e con i suoi piaceri della gola: è difficile sbarazzarsi della memoria anche se si vive all’estero?
«Io sono andata via a 18 anni e non è stato difficile trasferirmi all’estero perché mi sono portata dietro il mio mondo. Non ho mai perso il mio accento palermitano e questo non è stato facile in un grande studio legale italiano di Londra: lì ho misurato il razzismo degli italiani nei confronti dei siciliani quando fanno dei complimenti. Insomma, la memoria siciliana non mi ha mai lasciato: ai miei figli non ho mai parlato in inglese dicevo loro "itivinni" o altri termini dialettali fondamentali».
Ecco, in questa spruzzata di siciliano nella sua lingua c’è un debito con Camilleri, che ha sdoganato il dialetto più estremo?
«No. Ero amica di Camilleri, volli fortemente che fosse lui a presentare il mio primo libro, ma a casa mia madre in cucina diceva "arrimina" anziché "mescola": sono sempre stata abituata al misto di italiano e siciliano».
Ma secondo lei perché la Sicilia letteraria, soprattutto in tempi recenti, da Camilleri ad Auci, piace tanto? Il lettore vede un che di esotico nei vostri romanzi?
«La Sicilia ha sempre avuto grandi scrittori: dopo l’Unità d’Italia c’era l’esigenza di spiegarsi, di raccontarsi perché eravamo una colonia. De Roberto è stato un grande scrittore, lui sì ha scritto una grande saga. E Camilleri è il più grande scrittore siciliano del dopoguerra: ha scritto libri meravigliosi, come Il re di Girgenti, aveva un’ampiezza e una cultura spaventose. Non è stato riconosciuto come tale ma non se ne è mai lamentato. È rimasto "quello di Montalbano": "Così vogliono", mi disse una volta"».