il Fatto Quotidiano, 14 ottobre 2020
Intervista a Haim Baharier, biblista e filosofo
Figlio di ebrei polacchi sopravvissuti alla Shoah, allievo di Lévinas… “No, no, eviti il curriculum ché fa sorridere. Al massimo lasci ‘psicoanalista’”. Haim Baharier è uno degli intellettuali più originali d’Europa – filosofo e biblista, maestro di polenta e Qabbalà –, amato dal grande pubblico che affolla le sue lezioni in teatri (tra poco al Parenti di Milano con Eterna e attuale: il paradosso della saggezza ebraica) e festival. Ospite di “Filosofi lungo l’Oglio”, il professore affronta il tema “Essere umani” parlando di Neanderthal e Adamo.
Ci spiega meglio, prof.?
Ci sono due modi di narrare la storia umana: con Neanderthal, ovvero la scienza, e con Adamo, ovvero il percorso memoriale. Cosa porta di più Adamo rispetto a Neanderthal? Attraverso la memoria si dà un nome al primo essere vivente che ebbe il coraggio di diventare uomo: “Adamo”, appunto, che, in ebraico, ha almeno tre significati. Il primo è “uomo rosso”, rosso come il primo colore del prisma. Il secondo significato è legato alla “terra”: la madre dell’uomo, a differenza dell’acqua della scienza. Terra è, innanzitutto, responsabilità. L’habitat originario dell’uomo, tradotto in modo ridicolo come “giardino dell’Eden”, è invero un “rifugio”. La terza traduzione viene dalla gematria (scienza che assegna valori numerici alle parole, ndr), uno strumento ermeneutico che studia l’energia numerica, oltre a quella semantica. “Adamo” è il 45, associato a “mà”, “che cosa?”, la prima domanda che fa l’essere umano; la seconda è “mì”, cioè “chi?”. La dignità dell’essere umano è il domandare. Nel percorso biblico, le risposte non contano tanto: ci arricchiscono le domande che facciamo.
Per alcuni, come Nietzsche, la memoria è il fardello dell’uomo…
La memoria si fa fardello quando cerca di diventare storia: la Shoah, per esempio, è stata trasformata, purtroppo, prematuramente in storia, con tutte quelle celebrazioni che rischiano di ucciderne la memoria… La storia ha un contenuto di fatalità: è per questo che non insegna nulla. La memoria invece dovrebbe essere un insegnamento perché ci costringe a interrogarci continuamente.
La memoria – le disse suo padre – non è tanto della persecuzione, ma della liberazione dalla schiavitù. La memoria quindi è vitale e ha a che fare col futuro?
Questo frammento di memoria – l’Esodo – è fondamentale: come ebrei dovremmo ripetere tre volte al giorno di essere usciti dalla schiavitù d’Egitto. Di fatto, non vi era un progetto: fino all’ultimo, il popolo d’Israele non voleva uscire. Noi lo ricordiamo ancora oggi per acquisire maggiore consapevolezza e capire che l’uscita dalla schiavitù va conquistata, è una necessità da sviluppare dentro di sé. La prima “fuga” memoriale ebbe luogo quasi senza il nostro consenso: durante l’ultimo tratto di percorso nella tenebra, morirono i 4/5 dei figli di Israele, i 4/5 sono quelli che non volevano uscire, i 4/5 dell’ebraismo d’Europa sono finiti nella Shoah. Io non bene che cosa pensare di questa coincidenza, di questo numero 4/5, che ha duemila anni.
C’è chi dice che Dio ha inventato i numeri naturali: che legame c’è tra i due?
Corro il rischio di divagare. Il problema è non sostituire il nome con il numero, per la Torah questo rappresenta un pericolo: contare, censire il popolo non può che far sfuggire dalla mano del creatore l’epidemia. Quando successe, il maestro Mosè disse ad Aronne: “Prendi subito l’incenso e corri fra i morti e i vivi”. L’incenso è l’essenza, cioè ristabilire il nome.
Quindi mai confondere matematica e religione…
Io la religione non la sopporto: la decadenza del Dio di Israel si manifesta in questi orpelli. Io parlo di percorso identitario.
Lei è molto affezionato al tema della “claudicanza”: è una cifra dell’Occidente, da Edipo a Claudio, fratello assassino di re Amleto?
Cronologicamente questo concetto arriva dall’ebraismo antico: la claudicanza non c’entra col pietismo, è la condizione umana, la nostra identità. Con Caino e Abele, la claudicanza si esplicita così: da una parte Caino, figlio dell’uomo, dall’altra Abele, fratello di Caino. La claudicanza è la nascita di questa identità inattesa: il “fratello di”, che non ha posto. Il problema è l’accoglienza di Abele, ma di contro Abele ha il dovere di spiegare a Caino che, se lo accoglie, non è una rinuncia.
Ci racconti del suo maestro, il clochard parigino Monsieur Chouchani…
Purtroppo non è stato mio maestro, ero solo un bambino. Ma è lui che mi ha spiegato che Isacco è claudicante e che Abramo è grande nel sentire la voce della vita: Isacco invece ha fiducia assoluta nell’uomo, non si muove, è convinto che il padre non lo sgozzerà… C’è un fumetto in Francia bellissimo: Ce n’est pas toi que j’attendais (“Non sei tu quello che aspettavo” di Fabien Toulmé, ndr). Racconta di quando ti nasce un bambino diverso, con la sindrome di down, o l’autismo… a quel punto hai davanti agli occhi la claudicanza.
Lei ama divertire: spesso spiega il monoteismo con Star Trek…
Tutto ha dignità intellettuale; non esistono alto e basso: noi non siamo quello che diciamo, ma quello che esprimiamo, quello che passiamo all’altro. Io vado sui 73: non sono più alla ricerca di chi mi dice che sono molto colto. Io sono anche queste storielle yiddish, come quella del Tacchino pensante. Vuole che gliela racconti?…