la Repubblica, 14 ottobre 2020
I buoni selvaggi di Tonga
Sei ragazzi naufraghi al largo di Tonga affondano i presupposti del reality show. Uno storico olandese sconfessa il romanzo più noto di un Nobel britannico. Il buon selvaggio di Rousseau vince un round contro l’homo homini lupus sostenuto da Hobbes. Se non cambia la Storia, qualcosa almeno accadrà nel palinsesto.
Tutto ricomincia con le ricerche fatte dallo scrittore Rutger Bregman per il suo libro, appena pubblicato in Italia da Feltrinelli con il titolo Una nuova storia (non cinica) dell’umanità. Addirittura? Bregman non è affatto convinto che esista negli esseri umani un istinto naturale alla sopraffazione e che, lasciati allo stato brado, siano destinati a combattersi fino all’eliminazione del rivale. Lo pensa soprattutto dei più giovani. La sua fiducia si è per anni arenata davanti a un ostacolo: Il signore delle mosche, romanzo di un ex insegnante depresso, alcolizzato e manesco di nome William Golding. Come riconobbe: nel libro proiettò quel che trovava in se stesso. Compreso, sostenne «il nazista in ognuno di noi». Racconta di un gruppo di ragazzi finiti su un’isola, che cercano di sopravvivere e di convivere, ma finiscono per provocare una tragedia giacché «l’uomo produce il male come un’ape il miele». L’Accademia di Svezia definì l’opera di Golding «realistica». Come se questo e nient’altro che questo potesse essere, un uomo.
Bregman aveva il dubbio, ma gli serviva una prova. L’indizio gli venne da un libro dell’architetto e anarchico Colin Ward. Raccontava di un oscuro naufragio di ragazzi a Tonga, sopravvissuti per mesi come una pacifica tribù. Poche righe e il rimando a un rapporto steso da Susanna Agnelli per una commissione internazionale. Da lì, ai giornali dell’epoca. Nel 1965 sei studenti di un severo collegio australiano erano fuggiti nottetempo con una barca rubata, intenzionati a raggiungere le Isole Figi. Nessuno di loro era esperto di navigazione. La vela si squarciò. Il timone si ruppe. Otto giorni dopo erano alla deriva. Li accolse, per modo di dire, Ata: poco più di uno scoglio, disabitato e ostile. I sei avrebbero potuto dividersi in due fazioni, cercare un leader da riverire e poi rovesciare, farsi fuori uno dopo l’altro. Invece crearono una sorta di perfetta comune. Coltivarono l’orto. Allevarono galline. Costruirono un acquedotto e una palestra in forme rudimentali. Pregarono ogni mattina e cantarono ogni sera. Se due di loro litigavano li spedivano negli angoli opposti dell’isola e dopo mezza giornata dovevano riappacificarsi pubblicamente. Trascorsi 15 mesi, nel settembre del 1966, furono salvati. Li trovarono in buona forma fisica e mentale. Erano e sarebbero rimasti amici. Il fuoco che avevano acceso non si era spento per un solo istante.
La loro vicenda ballò brevemente sui quotidiani locali e venne dimenticata. In Olanda, dove vive Bregman, ha sede la società di produzione che ha inventato Il Grande Fratello. Il suo creatore, come quello di Survivor (l’Isola senza i famosi) ha sempre letto soltanto la versione fantastica del cosa succederebbe se mettessimo dei ragazzi su un’isola deserta. Ha creduto al signore delle mosche (alias Satana). Sono stati allestiti contesti (case o spiagge) dove ai presenti non viene prospettata altra possibilità che l’eliminazione vicendevole. I mezzi suggeriti per ottenerla sono l’ostilità, la delazione, l’inganno. Tutto questo, come per Golding, è ritenuto realistico. Lo è?
Tanto quanto il famoso “esperimento di Stanford”, condotto nell’università americana nel 1971, cinque anni dopo il salvataggio dei 6 di Tonga. Come noto, a 24 volontari rinchiusi in una finta prigione furono assegnati i ruoli di prigioniero e guardia. Già dal secondo giorno apparvero immedesimati e ben presto si dovette sospendere, a causa di scontri e rivolte. Solo molti anni dopo si scoprì che le reazioni erano scritte e prescritte, secondo un copione dettato dallo psicologo/autore. Si sarebbe giustificato dicendo che lo scopo era stato raggiunto: avere una audience planetaria. Quando, trent’anni dopo, la Bbc replicò “l’esperimento” senza sceneggiatura i partecipanti non si sbranarono e il programma fu un insuccesso.
La differenza che non vediamo quasi più? L’isola di Ata esiste, quella dei famosi è un’invenzione. Ed esiste, nell’oceano Atlantico, equidistante da Sudafrica e Brasile, un’isola chiamata Tristan da Cunha. I suoi 250 abitanti hanno 8 cognomi: uno olandese, uno scozzese, due americani, tre britannici e infine due (Lavarello e Repetto) italiani. Sono tutti discendenti di naufraghi, avventurieri, colonizzatori falliti. Hanno sempre vissuto in pace. Pur sotto l’autorità del Regno Unito si sono dati una propria legislazione. Il valore supremo è l’eguaglianza. Spese e ricavi vengono condivisi fra tutti. Non esiste proprietà privata. Gli incarichi disponibili vengono ricoperti a rotazione. Non ci sono discriminazioni, men che meno razziali. Quando per una prevista eruzione gli abitanti furono evacuati e portati prima in Sudafrica poi in Inghilterra videro come si viveva nella presunta civiltà e scelsero (148 a 5) di tornare nel mondo alternativo che avevano creato.
Il dibattito continua. Si confrontano diverse concezioni della natura umana. Scrisse Harold Brodkey che «ritrarla come innocente e decorosa è un atto di misericordia, un’infinita condiscendenza», che attribuì al «giornalismo di sinistra». È facile riscontrare la tendenza opposta (e spesso compiaciuta) in chi sostiene idee di altro genere. Ma l’unica distinzione è tra chi cerca la verità di una storia e chi ne propone una rappresentazione a conferma delle sue teorie.
Bregman, all’uscita del libro, ha pubblicato sul Guardian un estratto in cui narrava la vicenda dei naufraghi di Tonga. Dal giorno successivo è stato bombardato di richieste per trarre dalla vicenda un film o una serie tv. I sei ex ragazzi sono disponibili a dividere i profitti in parti eguali, includendo chi li trovò sull’isola. Il fuoco è ancora acceso. E chiunque abbia ragione: Bregman o Golding, Rousseau o Hobbes, almeno si può sperare di avere questa storia sul piccolo schermo come alternativa all’ennesimo finto carcere. Un piccolo passo per spegnere il nazista in alcuni, troppi, e riscrivere un capitolo, meno cinico, dell’umanità.