la Repubblica, 14 ottobre 2020
Sorpresa, in politica twittare non basta
Forse è venuto il momento di dirsi che la politica non si fa a colpi di hashtag. Che non basta diventare trending topic per dettare l’agenda del Paese. Che ammassare follower non è necessariamente la strada per vincere le elezioni. Insomma è venuto il momento di dirsi che Twitter resta uno strumento importante per comunicare e che dentro ci si trovano moltissime cose interessanti, ma non è, probabilmente non è più in questo momento, lo specchio dell’Italia. La monumentale ricerca realizzata dalla società di analisi social KPI6, pubblicata oggi sul sito di Repubblica, lo dice chiaramente.
Gli indizi in realtà erano già evidenti dopo la tornata elettorale di settembre quando l’80 per cento degli utenti di Twitter interessati alla politica avevano lasciato intendere che fosse in arrivo una clamorosa vittoria del No al referendum; a questo si era aggiunto il fatto che nessuno dei candidati alla presidenza della Regione aveva usato molto Twitter, anzi alcuni non lo avevano usato affatto (preferendo Facebook, come nel caso dei video di Vincenzo De Luca). Eppure avevano vinto lo stesso. Questo esito ribaltava l’assunto di una famosa ricerca pubblicata dall’università di Oxford nel 2017 che affermava, in buona sostanza, che c’era una correlazione evidente fra una intensa attività su Twitter e il successo elettorale. Più twitti e più voti avrai, era la sintesi, un po’ brutale. E inoltre l’esito elettorale di settembre interrompeva una tradizione favorevole per cui da diversi anni per prevedere l’esito di competizioni in cui contasse il voto popolare, come Sanremo o X Factor, era Twitter che si doveva consultare. Non sbagliava mai.
La ricerca di KPI6 prende in esame più di mille giorni, dal 13 marzo 2017 alla fine di settembre. I risultati più evidenti sono: 1) dal punto di vista del numero di tweet, l’unico leader davvero ancora attivo è Salvini che macina una ventina di tweet al giorno, Di Maio e Conte hanno una media di uno e due al giorno, la Meloni, Zingaretti, Berlusconi e Renzi stanno a 4. A questo va aggiunto un dato emblematico, i leader che twittano di meno sono anche quelli che non rispondono mai, e che quindi usano il social come un megafono o un muro dove attaccare una locandina. 2) Salvini è anche quello che macina più follower ma nel giro di un anno è passato da una media di duemila nuovi follower al giorno a circa 200; Conte nel periodo del lockdown ne aggiungeva circa seimila al giorno. 3) se i leader twittano sempre meno, i rispettivi partiti invece twittano sempre di più; anche qui, la Lega stravince in termini numerici; ma va notato che questa attività frenetica non si traduce in crescita e in conversazioni, visto che gli utenti preferiscono seguire direttamente i leader.
Ma c’è un dato che accomuna tutti: la perdita di peso specifico, la minore capacità di scatenare reazioni, di ingaggiare conversazioni. Dal settembre 2019 al settembre 2020 tutti hanno perso rilevanza (a parte Berlusconi per i tweet legati alla positività al Covid).
Insomma, fanno tanto rumore per nulla o almeno provocando effetti elettorali modesti. Twitter sta diventando una bolla autoreferenziale? Se ne parla anche in altri Paesi. Tra l’altro siamo nell’anno in cui il candidato favorito per la presidenza degli Stati Uniti, Joe Biden, su Twitter è un alieno eppure è in netto vantaggio.
È presto per dire se si tratta di una svolta, di una mutazione del social fondato da Jack Dorsey nel 2006, oppure se è un fenomeno passeggero. Nel 2016 Twitter è stato decisivo nell’ascesa di Donald Trump e nell’esito del referendum della Brexit. Eppure l’anno prima, il 7 ottobre del 2015, David Cameron, parlando alla conferenza del partito conservatore, dopo aver sconfitto il candidato laburista Ed Miliband, che nei sondaggi e per gli esperti di social media sembrava favorito, disse una frase di cui solo oggi apprezziamo il significato. Disse: «Il Regno Unito e Twitter non sono la stessa cosa». Ecco, ora neanche l’Italia.