«Trump non vincerà». Bruce Springsteen è tornato, per raccontare «i tempi inquietanti» che sta vivendo l’America. E con un nuovo album, “A letter to you”, che esce il prossimo 23 ottobre, accompagnato da un bel film realizzato da Thom Zimny, una raccolta di memorie e di speranze, racchiuse in canzoni nuove o che non aveva mai inciso prima, uno dei suoi album migliori. Non è mai davvero andato via in realtà, lo testimoniano i dischi e i concerti degli ultimi anni, ma era dal 2009 che non tornava a fare un album con la E Street Band e in quel disco, “Working on a dream”, c’erano ancora Clarence Clemons e Danny Federici, nel frattempo scomparsi. Undici anni in cui tutto è cambiato, lui per primo, ma anche e soprattutto il mondo attorno a lui e in particolare gli Stati Uniti D’America: «Il paese come luce brillante della democrazia è stato devastato da questa amministrazione — dice — abbiamo abbandonato gli amici, fatto amicizia con i dittatori e negato la scienza climatica». Anche se non è un disco “arrabbiato” o politico quello che Springsteen e la sua band hanno realizzato, era impossibile che la realtà non facesse capolino nelle canzoni dell’autore più lucido e attento della musica americana.
Ed infatti c’è un brano, “Rainmaker”, che è pienamente calato nei «tempi inquietanti», come li definisce Springsteen, che stiamo vivendo.
«Credo di aver scritto “Rainmaker” quando Bush era presidente», ci dice in collegamento Zoom dal suo studio in New Jersey. «Ho cominciato a scriverla in quel periodo, ma si adatta molto meglio a Trump. Credo che lo sia perché parla di un demagogo, è una canzone in cui cerco di capire che cosa sta succedendo, qual è la connessione tra il demagogo e i suoi seguaci, qual è la dinamica del potere tra loro. È un tema molto interessante ed è una canzone rock molto buona, così ho deciso di metterla nell’album.
Ce l’avevo nel cassetto da un po’, l’ho ripresa perché penso che abbia una relazione diretta con la nostra situazione attuale».
Le elezioni americane sono imminenti, cosa pensa di queste elezioni che possono essere le più importanti della storia americana?
«Okay. Parliamo di Donald Trump… Prima di tutto Donald Trump perderà, l’avete sentito per primi qui.
Joe Biden vincerà e il lungo incubo nazionale sarà… non so se sarà davvero finito, ma lui sarà andato.
Sono sicuro che non verrà eletto per un secondo mandato. Una certa confusione può esserci, ma spero di vedere una valanga, cosicché non ci siano tante discussioni su chi ha vinto, Joe Biden ovviamente. Spero non ci siano tanti impicci attorno alle elezioni, in modo di non dover aspettare un mese o due in cui fanno ricerche per capire chi ha vinto. Ma io credo che gli Stati Uniti saranno davvero insieme come una nazione unita, senza badare alle tensioni e alle divergenze che ci sono in una parte della sua popolazione oggi.
Credo che molto di quello che si vede in televisione sia fatto da una minoranza che cerca di far crescere l’isteria. Io invece penso che ci sia moltissima positività in giro».
In che cosa la vede?
«Penso che il movimento Black Lives Matter sia un movimento molto positivo, pacifico nella sua maggioranza, quando evolve verso la violenza non è un bene per nessuno. Ma se si guarda all’ampiezza e alla quantità di manifestazioni che sono state fatte nel mondo, si può dire che sia un movimento pacifico. Ed è stato salutare in questo momento storico, perché ha riacceso la battaglia per i diritti civili negli Stati Uniti e l’ha spinta verso una direzione più umana. Una direzione che la storia richiede. Non si può vivere in una società in cui se sei un uomo di colore sei in pericolo che qualcuno ti spari, in qualsiasi momento, per una piccola infrazione o perché sei nel posto sbagliato nel momento sbagliato. È giunto il momento per gli Stati Uniti di fare in modo che questo non accada più. Per questo Black Lives Matter è molto importante. I movimenti di destra si sono fatti vedere perché Trump ha creato un clima in cui si sono sentiti incoraggiati, torneranno sotto la roccia dalla quale sono strisciati fuori quando lui andrà via. Ho ancora molta fiducia nel popolo americano, nell’idea americana.
Siamo stati storditi e questo è stato doloroso, ma siamo ancora lontani dall’essere battuti. Quindi abbiate fede, miei fratelli e sorelle che ascoltate, non è ancora finita».
C’è una canzone nel nuovo album in cui questa speranza prende forma, “House of thousand guitars”…
«È probabilmente la mia canzone preferita, è un tentativo di definire il mondo che ho cercato di creare con il mio pubblico, con chi mi ascolta, fin dall’inizio. È un mondo di valori condivisi, con un codice d’onore, di divertimento, di gioia, ma che ha anche, non so se è la parola giusta, una moralità. Ha valori e ideali. È un mondo che si crea quando salgo sul palco e il pubblico entra per il concerto: viviamo in quel mondo per due o tre ore e quando finisce portiamo quel mondo con noi, sperando che possa sostenerci il più a lungo possibile nel mondo reale. La casa delle cento chitarre è la casa che abbiamo costruito e in cui queste cose contano davvero. E la nostra principale responsabilità è dare vita e luce a questa casa. È la canzone che non vedo l’ora di suonare».
Di questi tempi sarebbe pronto per andare in tour…
«Invece dovremo stare fermi e ancora non sappiamo quando si potrà tornare a suonare. Saremmo volentieri ripartiti da San Siro. Ma un pezzo di Italia è nel cuore di questo album: un fan italiano mi ha aspettato fuori dal teatro di Broadway dove facevo il mio spettacolo due anni fa, mi ha fermato e mi ha fatto vedere una chitarra, io pensavo volesse un autografo e invece lui la chitarra me l’ha regalata. Era bella, l’ho ringraziato e sono salito in macchina con la chitarra. L’ho portata a casa ed è rimasta in un angolo in soggiorno per tanto tempo. Ad aprile dell’anno scorso l’ho presa per la prima volta e l’ho suonata, aveva un suono bellissimo. Ed è stata proprio quella chitarra a spingermi a scrivere, le canzoni di “Letter to you” sono nate su quella chitarra».