Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  ottobre 13 Martedì calendario

Schumacher e Hamilton a confronto

La prima vittoria in F.1 di Michael Schumacher fu ottenuta il 30 agosto 1992 a Spa-Francorchamps, la pista belga che sarebbe poi diventata il suo regno, e a quell’epoca Lewis Hamilton non aveva ancora compiuto otto anni. Uno gettava le basi per i due titoli mondiali che avrebbe conquistato con la Benetton nelle stagioni successive (1994-95) e l’altro era uno studente delle scuole elementari appena all’inizio di una faticosa carriera nei kart “sponsorizzata” da papà Anthony, che si sobbarcava quattro lavori per consentire al figlio di correre. C’è una generazione a dividerli. E infatti l’inseguimento di Hamilton ai record di Schumi comincia molto tempo dopo, nel 2007, quando il tedesco si è già ritirato per la prima volta, dopo avere vinto altri cinque Mondiali con la Ferrari, e il giovane inglese debutta nei GP sulla McLaren a 22 anni. Gli sono servite quattordici stagioni per completare l’aggancio al Campionissimo, raggiunto a 91 vittorie, e destinato a essere eguagliato a fine 2020 da Hamilton anche nel numero di titoli iridati. Le loro strade si sono incrociate solo nel 2010, 2011 e 2012, perché Michael decise di tornare a correre a 41 anni, stavolta sulla Mercedes, e Lewis si ritrovò uno degli idoli della sua fanciullezza come rivale in pista, roba da non crederci. Poi, per un’altra curiosa coincidenza, fu proprio Hamilton nel 2013 a prendere il posto di Schumi sulla macchina d’argento, dando avvio a quello che poi sarebbe stato il dominio assoluto del team di Toto Wolff nell’era dei motori ibridi.

Epoche diverse
Il parallelo fra i due è un confronto fra epoche storiche, personalità e percorsi di vita tanto diversi da rendere impossibile qualsiasi paragone. Ma il talento e il carisma sono qualità che li hanno certamente accomunati, al di là dei trionfi seriali. «È impossibile dire chi sia il più grande di tutti i tempi», dice Hamilton rispondendo alla domanda che a questo punto si fanno tutti. «Io ho un enorme rispetto per i grandi piloti del passato, ognuno a suo modo è stato unico, e tutti restano leggende. Mi servirà del tempo per realizzare di avere conquistato 91 vittorie, ma conta soprattutto il cammino che ho fatto per arrivare fin qui. Nel 2013 non ero il Lewis di oggi, sapevo ancora molto poco di me stesso. Vorrei essere ricordato per il messaggio che riuscirò a lasciare alla gente, più che per i miei record. Quello che posso fare fuori dalla macchina è più importante dei risultati sportivi». In questi anni Hamilton non è cambiato solo esteriormente, diventando la rockstar con le treccine rasta che frequenta i divi del cinema e dello sport, attirando un pubblico planetario. Le sue idee sono cresciute assieme a lui, dando vita a battaglie per i diritti umani, l’uguaglianza razziale e la salute del pianeta, che ne hanno fatto un vero leader. Schumacher non era così, non sentiva lo stesso bisogno interiore di mettersi in gioco per cause più grandi, facendosi portavoce di un messaggio universale. La differenza sta nel percorso umano che ha dovuto affrontare Hamilton, discriminato per il colore della sua pelle fin dall’infanzia, trascorsa nei sobborghi di Londra. «Il nostro tempo è prezioso e nessuno può darcelo indietro. L’ho capito durante i mesi della pandemia – racconta Lewis – mentre ero chiuso in casa, nella mia bolla, e potevo riflettere. Perciò, anche quando questo periodo difficile sarà passato, non tornerò alla vita frenetica che facevo prima, piena di impegni. La famiglia è più importante di tutto. E io sto discutendo anche di questo nelle trattative per il rinnovo del contratto con la Mercedes». 

Due Fenomeni
Come piloti sono stati (sono) due Fenomeni. Impressionanti sul ritmo gara e dotati di un’intensità straordinaria. Ma anche fortissimi nei duelli corpo a corpo e nei sorpassi. Eddie Irvine, compagno di Schumacher alla Ferrari, azzarda una differenza: «Mentre Michael in carriera ha fatto qualche incidente, non se ne ricordano di Lewis. È il campione più corretto e pulito che ci sia stato». Sul giro di qualifica Hamilton ha demolito tutti i record, arrivando a 96 pole position contro le 68 di Schumacher, anche se la pietra di paragone resta Ayrton Senna. Entrambi sono stati anche precocissimi: Schumi ha vinto la prima gara dopo 18 GP, con una Benetton che non era ancora da titolo, mentre Hamilton c’è riuscito dopo appena 6 GP, conquistando anche la prima pole, con una McLaren fortissima, ma anche con un compagno di squadra come il due volte iridato Fernando Alonso, che avrebbe stritolato qualsiasi altro debuttante. E Lewis aveva già stupito all’esordio assoluto, in Australia, salendo subito sul podio: abbastanza per capire che era nata una stella. Il 91° successo di Hamilton è arrivato dopo 261 GP disputati. A Schumacher, vincitore per l’ultima volta nel 2006 in Cina, ne bastarono 247. Il settimo titolo di Schumi dopo 14 stagioni, tante quante ne ha disputate finora Hamilton, in procinto di fare altrettanto. Le loro carriere statisticamente sono state quasi speculari, in particolare da un certo punto in avanti, quando sono approdati nelle squadre migliori.

Uomini squadra
La Ferrari ha reso grande Schumacher e la Mercedes ha consacrato Hamilton. Ma vale anche il contrario. Senza loro due, forse non ci sarebbe stato il dominio della scuderia di Maranello fra il 2000 e il 2004 e neppure lo strapotere della Mercedes dal 2014 a oggi. L’uomo e la macchina hanno fatto la differenza. «Non ho trasformato da solo la Mercedes e, allo stesso modo, non fu Michael a cambiare da solo la Ferrari, per quanto fosse grande. Il compito dei piloti – spiega Hamilton – è indirizzare il lavoro di centinaia di persone molto più capaci e intelligenti che lavorano dietro le quinte. Nelle nostre squadre ci sono stati autentici fuoriclasse. Ma i computer e i dati degli ingegneri non dicono tutto. È a quel punto che interviene la sensibilità del pilota, con le sue impressioni, per andare oltre e suggerire una soluzione. Solo da questa collaborazione nascono i trionfi». Valeva all’epoca della rossa di Jean Todt, Ross Brawn e Rory Byrne. Vale oggi nel dream team Mercedes. «E comunque non è finita. Sento di potere ancora migliorare in futuro e conquistare altri traguardi importanti». Alla prossima vittoria, Lewis. Gli altri sono avvisati.