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 2020  ottobre 13 Martedì calendario

Il Cile ha dimenticato i suoi minatori eroi

Dal profondo della terra alla fama internazionale. Per poi tornare alle complicazioni di una vita che per la grande maggioranza di loro non è certo migliorata. A dieci anni dal salvataggio dei 33 minatori cileni, i protagonisti di quella storia oggi si aggiustano come possono per sbarcare il lunario. La loro, è stata una storia planetaria. Chi scrive ha avuto la fortuna di seguirla per questo giornale, al «Campamento Esperanza», il bivacco improvvisato alla miniera San José, nel deserto arido di Atacama, con trenta gradi di sbalzo termico dal giorno alla notte. I 33 erano rimasti bloccati due mesi prima a 700 metri di profondità per una frana crollata sui tunnel di risalita. Isolati e senza viveri, la loro sorte era segnata, una in più nelle statistiche dei disastri della storia mineraria del Cile. Negligenza, prima di tutto; per risparmiare non erano state messe le scale d’emergenza. Per salvarli, però, si mobilitò tutto un Paese con un’operazione di ingegneria inedita a livello mondiale. Fu costruito subito un canale per far arrivare dei viveri e da lì i minatori riuscirono a recapitare in superficie un messaggio: «Siamo tutti 33 vivi nel rifugio». Iniziò lì la corsa contro il tempo con una perforatrice a scavare un tunnel di 622 metri di profondità per farvi passare una capsula, battezzata Fenix, alta 4 metri e con 66 centimetri di diametro attraverso la quale estrarli uno a uno. Il primo a uscire fu Florencio Avalos, il cameraman del gruppo e poi tutti gli altri fino al capo spedizione Luis Urzua. I giorni che seguirono furono di grande festa a Copiapò, con gli inviati delle tv, dall’America al Giappone, a caccia di interviste esclusive.
Sono stati eroi nazionali. Ma poi sono caduti in fretta nell’oblio: molti di loro oggi non navigano in buone acque. Lo Stato cileno ha concesso loro una pensione di 480 euro, poco più del salario minimo. Molti hanno lasciato la regione, qualcuno è rimasto e continua a lavorare nelle miniere, ma non va più sottoterra. Il più famoso è Mario Sepulveda, considerato il vero leader del gruppo, soprannominato «Supermario»; ha vinto un reality show della televisione cilena, ha fatto un paio di pubblicità e oggi dà lezioni motivazionali nelle aziende. Meno fortunato di lui Josè Ojeda, 54 anni, malato di diabete e con difficoltà motorie; non è più riuscito a trovare lavoro. Alcuni di loro hanno chiesto un maxi-risarcimento allo Stato, che non è mai arrivato. Juan Illanes era elettricista in miniera: ha tentato due volte di diventare sindaco in una cittadina lì vicino, ha rifiutato di firmare la richiesta di indennizzo. «I soldi si guadagnano alla lotteria o lavorando duro, io preferisco vivere del mio lavoro». José Henriquez, guida spirituale del gruppo, ha scritto un libro sul «miracolo di San Josè» e oggi tiene sermoni nelle chiese di culto evangelico in giro per il Cile. Meteoritica è stata invece la carriera di Edison Peña, il maratoneta, che correva nel rifugio per tenersi in forma. È diventato famoso con l’imitazione di Elvis Presley, è stato invitato anche al «David Letterman Show», ma la fama è durata poco; disoccupato, oggi fa lavoretti saltuari da idraulico. Anche se la miniera è stata chiusa, Jorge Galleguillos ha continuato ad andarci come guida; racconta la sua storia ai turisti, ma da sei mesi è tutto fermo a causa della pandemia. Una vita particolare è quella di Franklin Lobos. Da giovane fu calciatore nella squadra locale e alla San José ci arrivò a 40 anni per lavorare come autista dei camion. Dopo il pallone e la miniera la sua terza vita è come gestore di un’agenzia di affitto auto nell’aeroporto di Copiapò, chiusa oggi per il coronavirus. Intervenuto in un programma radiofonico, ha invitato i cileni a seguire le norme anti-Covid. «Mi fa male vedere tanta gente egoista, che mette a rischio la salute degli altri». Tutti i trentatré, ha confermato alla Bbc uno degli psicologi che li segue, convivono ancora oggi con il trauma vissuto. Mario Sepulveda ha ammesso di avere ancora incubi di notte e claustrofobia. Il salvataggio costò al Cile quasi 25 milioni di euro, la classe politica promise subito dopo leggi più severe e maggiori controlli sulle attività delle miniere. È stato fatto poco, ma la media dei morti è scesa da 30 a 14 l’anno. Il Cile, che produce il 30% del rame mondiale, non ha ancora firmato la risoluzione della Oit (Organizzazione Internazionale del Lavoro) su sicurezza e salute nelle miniere. Se i 33 si sentono oggi dimenticati, il resto dei minatori cileni continua a lavorare con la paura di non poter tornare a casa.