la Repubblica, 13 ottobre 2020
Biografia di LeBron James
Ora è l’eroe, finalmente. Il vero Mister America. Un quasi patriarca che a 35 anni compiuti ha vinto tutto: 4 titoli Nba con tre squadre diverse, 4 volte Mvp (most valuable player) nelle Finals. The Best, insomma. Forse LeBron James non sarà mai Michael Jordan, forse fuori dal parquet sarà meglio, ma di sicuro l’eredità di Kobe Bryant è in buone mani. Il titolo con i Lakers premia un gigante che è inciampato, caduto, risorto. Ma che si è soprattutto trasformato da The Loser, due finali perse nel 2007 e nel 2011 – senza assumersi quella responsabilità che si era preso Jordan, sua Maestà Airness, sei titoli Nba – a The Chosen One, il prescelto, senza riuscire a diventare anche The Beloved, il più amato.
La metamorfosi di LeBron sembra una sceneggiatura hollywoodiana: l’incoscienza giovanile, l’egocentrismo che porta alla sconfitta, la consapevolezza del talento che conduce al successo. L’io che diventa noi nell’anno più difficile: la morte di Kobe e della figlia Gianna, la pandemia, il fisico che cede alla ruggine e a un grave infortunio, solo 55 partite giocate nell’ultima stagione, un coach (Frank Vogel) non scelto da lui, quasi cento giorni nella bolla di Orlando, lontano dalla famiglia, mentre nelle strade l’America bruciava nella protesta razziale. «È stato un anno strano, ma mi ha motivato. Mi è mancato non accompagnare mia figlia all’asilo, mi è dispiaciuto non esserci alla festa dei 16 anni di mio figlio». Ci fosse ancora qualche dubbio, LeBron si è fatto riprendere mentre con un sigaro in mano chiamava al telefono sua madre, Gloria, la ragazza che lo aveva avuto a 16 anni: «Ti adoro, tu sei la ragione per la quale io sono riuscito a fare tutto questo». E tutto questo non era io contro Miami in gara 6 per la prima volta in tripla doppia: 28 punti, 14 rimbalzi, 10 assist. Ma l’essere capace di abbracciare il mondo, di diventare re con il suo popolo, di vincere con Anthony Davis (voluto da lui) e con Rajon Rondo, quello che per i Lakers è il 17° titolo Nba (pareggiando i conti con i rivali di sempre, i Boston Celtics) e per quella Los Angeles gialloviola, club dei ricchi e famosi, un primato sofferto, aspettato dieci anni. James ha condotto la squadra, devastata dalla perdita di Kobe, l’ha rincuorata, ma non ha voluto marchiarla, infatti i Lakers hanno indossato le maglie che aveva disegnato Bryant e Lebron ha finalmente potuto dire: «Kobe, lo so che ci stai guardando da lassù e sei orgoglioso di noi». Per poi dichiarare: «Voglio il mio dannato rispetto». Insomma, non sono più il reietto, il vigliacco, quello che si eclissa quando c’è da combattere. Non sono più quel big kid finito sulla copertina di Sports Illustrated a 17 anni, da studente di high school di Akron, Ohio, nel 2002. Quello che mangiava nei fast-food, metteva Jay-Z a palla, l’unico ragazzo che Michael Jordan invitava nei suoi allenamenti segreti a Chicago. Quello che nel 2003 esordiva nell’Nba, precoce in tutto: a 18 anni già miliardario, senza aver vinto niente. Un talento, una promessa, che però non riusciva ad essere determinante quando serviva. Aveva la sua corte di 12 persone, tra i quali l’addetto stampa, lo stilista personale, il cuoco. E aveva il talento, eccome, ma non c’era la consapevolezza di doverlo mettere in azione. King James divideva i sudditi, si faceva odiare non amare, e un pezzo d’America glielo mandava a dire appendendo la sua maglia sotto le ruote della macchina. Era un traditore. Se n’era andato da Cleveland, dalla città operaia che lo aveva cresciuto per sette stagioni, senza farla vincere, per trasferirsi al caldo di Miami, dove let’s party, camicie a fiori e spiaggia, serie da Miami Vice. E certe cose un kid di Akron per rispetto non le fa. Infatti era tornato nella sua cuccia dei Cavaliers e nel 2016 li aveva condotti al titolo. Lo schema? «Just give him the ball». Dategli la palla, qualcosa s’inventerà. Si meritava anche l’acronimo The Boat, Best of all times, in breve il migliore di sempre. Cambiava dieta: niente più carne rossa, né maiale. Cambiava sguardo: un misto di occhi di cobra, di leopardo e di tigre. Vale a dire: capacità di leggere il gioco, aggressività, concretezza. E s’impegnava a fondo nella sua fondazione che aiuta i bambini a non lasciare la scuola (infatti ne ha creata una). Non solo lo slogan «Black Lives Matters» indossato sulle magliette alternandola a quella «Vote», ma James oggi è così coinvolto da aver fondato una propria organizzazione ( More than a vote) per spingere più cittadini possibili a registrarsi e ad esprimere la propria opinione alle urne. Un campione, ma anche un uomo who cares. A cui interessa la società in cui vive, non senza contraddizioni (sulla Cina). Non a caso il commissioner Adam Silver nell’assegnargli il trofeo di Mvp intitolato al leggendario Bill Russell ha detto: «Ho la sensazione che questo premio porterà il suo nome un giorno». King James ce l’ha fatta: a farsi amare, rispettare, stimare. Ad allacciarsi al passato e a dargli un futuro. A schierarsi (con i democratici), ad essere qualcosa di più di un campione nero arrabbiato dello sport. E a Los Angeles in California non era facile raccogliere l’eredità di chi allo Staples Center ha fatto la storia come Jabbar, Magic Johnson e Bryant. LeBron quest’America la tiene per mano. Negli ultimi otto sono cambiati i presidenti e forse cambieranno ancora. Ma lui, l’Mvp, non è mai cambiato, anche se con maglie diverse. Gli altri alla Casa Bianca passano, lui sotto canestro (e non solo) resta il re.