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 2020  ottobre 13 Martedì calendario

Le promesse tradite dei colossi del delivery

Poche tasse, poche responsabilità e grandi affari. Le carte dell’inchiesta sui rider “affittati” da Uber per le consegne di cibo a domicilio sono la fotografia del volto nascosto del pianeta della sharing economy. Un fenomeno miliardario – il colosso Usa vale in Borsa 64 miliardi – che ha cambiato le regole del mercato e la vita dei consumatori ma che dietro all’efficienza degli algoritmi delle sue piattaforme nasconde talvolta «un sistema di disperati», come ammette candidamente una manager della filiale italiana nelle intercettazioni, sotto pagati, senza diritti e privati persino delle mance che gli venivano sequestrate.
Quando Uber Eats è sbarcata sul mercato italiano delle consegne di cibo a domicilio a fine 2016, i suoi manager sapevano bene in che ginepraio andavano a cacciarsi. Erano i giorni dei primi scioperi dei rider di Foodora contro le paghe da fame (allora 2,7 euro a consegna), la precarietà del lavoro autonomo e i licenziamenti via Whatsapp. «Il nostro modello è diverso – aveva promesso Carlo Tursi, allora general manager di Uber Italia – Siamo solo una piattaforma che mette in contatto domanda e offerta». I fattorini? «Sono lavoratori autonomi disposti a fare una consegna», aveva assicurato, inquadrati da società terze. Un classico dell’”economia dei lavoretti”, figli di un’epoca in cui «sarebbe miope non prendere coscienza dei cambiamenti del mondo del lavoro sprecando le opportunità offerte dal progresso tecnologico». Nel rispetto, aveva aggiunto Tursi senza troppa preveggenza, dei diritti dei lavoratori. Le promesse di allora erano scritte sull’acqua. L’inchiesta di Milano e il commissariamento di Uber Italy dicono infatti che non è andata proprio così. Di sicuro da quello sciopero del 2016 in Foodora le cose non sono cambiate molto per gli oltre 10mila rider – non solo quelli di Uber – che lavorano in Italia. 
Il mercato è esploso raddoppiando di dimensioni nel 2019 a 566 milioni e quest’anno dovrebbe arrivare attorno al miliardo grazie al boom di ordini in pandemia. Il fisco italiano ha visto solo le briciole di questo successo – Uber Italy ha pagato 171mila euro di tasse, Glovo zero, Deliveroo 11mila e solo Just Eat con 1,6 milioni di euro fa un po’ meglio — e per i fattorini la situazione è evoluta tra luci (poche) e ombre (molte).
Assodelivery, l’associazione dei big del settore tra cui Uber Eats, ha sottoscritto «il primo contratto per rider d’Europa» – come hanno festeggiato i firmatari – con la destra sindacale di Ugl, destinato a diventare operativo il 3 novembre. L’intesa prevede una paga di 10 euro all’ora lavorata, indennità per lavoro notturno, festività e straordinari e un forfait orario di sette euro in assenza di ordini più alcune dotazioni di sicurezza e coperture assicurative. L’accordo è stato però criticato (ma mai sconfessato) dal ministero del Lavoro e contestato da Cgil-Cisl e Uil perché “cristallizza” il rapporto di lavoro autonomo e in sostanza anche il cottimo. I Confederali – disposti a un’intesa che garantisse “flessibilità” ma inquadrata nei contratti della logistica – s ono pronti a mettersi di traverso con la richiesta di ispezioni per verificare che lo “sfruttamento” dei rider sia davvero finito e preparano le cause legali. Lo squilibrio di potere negoziale tra offerta di lavoro e domanda del resto, nel mondo del food delivery, è enorme. E ci sono ampi spazi – come dice la segretaria generale della Cgil, Tania Scacchetti – per garantire ai “disperati” della gig-economy «contratto e inquadramento più dignitosi».