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 2020  ottobre 13 Martedì calendario

1QQAN40 I partigiani moderati messi da parte

1QQAN40

Alfredo Di Dio, nome di battaglia «Marco», fu a capo della divisione Valtoce, l’importante formazione partigiana che diede vita – tra settembre e ottobre del 1944 – alla Repubblica dell’Ossola. Un grande combattente per la libertà, Di Dio, ucciso in un’imboscata tedesca, decorato nel dopoguerra con la medaglia d’oro al valor militare. Eppure in una parte dei libri di storia della Resistenza non ha avuto i riconoscimenti che avrebbe meritato. Dei «giudizi riduttivi» (talvolta sprezzanti) dati su Di Dio e su altri come lui si occupa Eugenio Capozzi in un interessante saggio contenuto in Le formazioni autonome nella Resistenza italiana (a cura di Tommaso Piffer) che sta per essere pubblicato da Marsilio. I resistenti «badogliani» (né comunisti né azionisti), spiega Capozzi, sono stati a lungo etichettati quali «rappresentanti di quella parte della società italiana che combatteva il fascismo perché voleva semplicemente “tornare indietro” ad un assetto sociale e politico come quello liberale prefascista». La colpa imputata loro era quella di non aver concepito la Resistenza alla stregua di «un passaggio verso un’Italia nuova», di non averla considerata «un’occasione per affermare il progresso politico e sociale».
La sorte di aver subito «giudizi riduttivi» per aver guardato alla Resistenza come una lotta condotta «soltanto» per la liberazione dell’Italia dall’occupante nazista, Di Dio l’ha condivisa con Enrico Martini «Mauri» fondatore della formazione partigiana più numerosa e militarmente attiva nel basso Piemonte (ne parla Giampaolo De Luca). Con Pietro Del Giudice, religioso dell’ordine dei domenicani, comandante del Gruppo patrioti apuani (studiato da Paolo Pezzino). Con un importante maestro del pensiero liberale, Bruno Leoni, che diede un apporto fondamentale alla messa in salvo dei prigionieri alleati (se ne occupa lo stesso Piffer). Con Renato Del Din, Giancarlo Marzona, Ferdinando Tacoli, figure fondamentali della Resistenza friulana (analizzati da Fabio Verardo). Con Teresio Olivelli, riferimento per le Fiamme Verdi bresciane (ne scrivono Roberto Tagliani e Danilo Aprigliano). E con una gran quantità di altri personaggi tra cui alcune gentildonne – Lavinia Boncompagni Ludovisi in Taverna ed Emilia Guerrieri Gonzaga – i cui salotti fecero da intelaiatura per la «rete» resistenziale di Edgardo Sogno (le due e altre come loro sono passate in rassegna da Rossella Pace).
Piffer non è nuovo a questo tema. Lo ha già affrontato, indirettamente, in tre libri: Il banchiere della Resistenza. Alfredo Pizzoni, il protagonista cancellato della guerra di Liberazione (Mondadori); Porzus. Violenza e Resistenza sul confine orientale (il Mulino); Gli Alleati e la Resistenza italiana (il Mulino). Tratto distintivo degli «autonomi» fu, secondo Piffer, «il rifiuto di declinare la guerra di Liberazione in un senso di rottura dell’ordine sociale». Ciò che li pose in netta opposizione sia con l’ideologia filosovietica, «che costituiva il Dna del movimento comunista internazionale», sia con la cosiddetta «rivoluzione liberale di marca azionista». Questa contrapposizione provocò già all’epoca «incomprensioni e contrasti» proprio con le formazioni partigiane di ispirazione comunista e azionista. Gli scontri più accesi si verificarono tutte le volte che gli «autonomi» rifiutarono di impegnarsi «in azioni che si potevano ritorcere a danno della popolazione civile senza un significativo vantaggio dal punto di vista militare». Incomprensioni e contrasti di cui, in letteratura, si trova eco, ad esempio, nel Partigiano Johnny (Einaudi) di Beppe Fenoglio.
Nel 1948, gran parte delle associazioni di combattenti sorte dalle esperienze autonome confluirono nella Federazione italiana dei volontari della libertà (Fivl) nata come reazione all’egemonia comunista sull’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi). A questo punto lo scontro si fece ancora più acceso. Di conseguenza, al termine di un percorso settantennale, le associazioni riunite nella Fivl sono finite ai margini del racconto ufficiale dell’intera vicenda resistenziale.
Perché è accaduto? Piffer cita un’espressione che Alessandro Galante Garrone utilizzò a proposito di Edgardo Sogno per rimproverare agli autonomi di esser stati intimamente estranei «al moto di rinnovamento che fu l’impronta vera della Resistenza». Eppure Giorgio Bocca nella Storia dell’Italia partigiana (Laterza) ha contato che, tra i combattenti piemontesi in campo già dal novembre del 1943, più della metà erano autonomi. Saranno stati anche «estranei al moto di rinnovamento», però furono fondamentali nel dar vita alla lotta armata contro i nazisti. Ciò nonostante, colpite da questo anatema (proveniente non soltanto da Galante Garrone), le associazioni autonome sono state «espulse da una storia che avevano contribuito in gran parte a scrivere». Vittoriosa sul piano politico, scrive ancora Piffer, «la Resistenza autonoma ha perso la guerra della memoria». Proprio perché le associazioni che rappresentavano i reduci delle formazioni antitotalitarie si sono rivelate sostanzialmente «incapaci di imporre una lettura alternativa che rendesse giustizia al ruolo da loro svolto».

Come tutto ciò sia potuto accadere prova a spiegarlo ulteriormente Ernesto Galli della Loggia in un saggio che fa da introduzione al libro curato da Piffer. Secondo Galli della Loggia nel biennio 1943-45 si verificò nell’Italia settentrionale «una sorta di replica a parti invertite di quanto era accaduto nell’Italia meridionale circa un secolo prima, nel 1860, al momento della nascita del nostro Stato nazionale». Una «replica a parti invertite»? In entrambi i casi – scrive Galli della Loggia – «sul medesimo lato della barricata si ritrovano a combattere spalla a spalla due poli militari di diversa natura e corrispondentemente di due modi diversi di pensare e di fare la guerra». Quali? Un «polo di segno prettamente dinastico-militare, su posizioni in senso lato conservatrici», l’altro «di segno partitico-popolare orientato in senso insurrezionalistico-democratico». Due poli costretti a collaborare pur con intenti diversi. In entrambi i casi (1860 e 1943-45) «a fare diciamo così da sfondo ma non troppo «alcune potenze straniere» che «simpatizzano per l’uno o l’altro schieramento in campo».
Nel 1945, però, l’esito fu opposto a quello del 1860. Vinsero le forze del rinnovamento radicale, scrive Galli della Loggia, e l’Italia, di conseguenza, ebbe «un volto istituzionale interamente nuovo rispetto al passato». In specie «le formazioni autonome a guida perlopiù militare e di orientamento patriottico-monarchico (o comunque esplicitamente anticomunista)» persero «una partita politica nella quale non sono mai entrate». Il fatto è che «proprio il loro orientamento implicava inevitabilmente l’idea che il fascismo avesse costituito alla fin fine solo una parentesi». Chiusa la quale nella sostanza non c’era altro da fare che tornare all’Italia liberale prefascista in cui, pure, aveva covato la crisi di cui aveva approfittato Benito Mussolini. Nella loro ottica, cioè, «il dopo non poteva che avere il carattere di una restaurazione, sia pure con qualche aggiustamento». Ma, si domanda Galli della Loggia, «poteva mai essere politicamente proponibile una cosa simile in un Paese che usciva sconfitto da una guerra come quella?». È evidente di no.
In realtà qualcosa era andato storto già da prima, dall’estate del 1943. La «colpa», ammesso che così la si possa definire, va ricondotta a casa Savoia. Quando, dopo la deposizione e l’arresto di Benito Mussolini il 25 luglio, venne il momento di sganciarsi dall’alleanza con i tedeschi, la monarchia, «a causa della sua inettitudine e di quella dello stato maggiore» affronta l’ora più difficile della propria storia «priva del principale strumento di azione politica» cioè «dello strumento che sarebbe stato più adatto ad affermare la propria presenza sulla scena italiana»: l’esercito. Che avrebbe potuto avere un ruolo importante in quella fase proprio perché era ancora «un esercito di popolo, scevro di significative influenze fasciste».

Essendo venuto a mancare un rapporto di reciproco ascolto tra re ed esercito – nonostante a prendere il posto di Mussolini fosse stato chiamato un militare, Pietro Badoglio – l’Italia in quel frangente sottovalutò la prevedibile reazione tedesca all’annuncio dell’armistizio con gli angloamericani ritenendo che a difendere il Paese dai tedeschi avrebbero dovuto provvedere esclusivamente gli Alleati. Di qui la difficoltà per la monarchia – nonostante l’apporto fondamentale da essa dato alla deposizione di Mussolini – ad essere percepita come antifascista. Il tutto aggravato dalla ventennale compromissione di Vittorio Emanuele III con il regime.
Le credenziali monarchiche offerte da pur importanti formazioni partigiane erano accolte dunque con sospetto. A questo si aggiungeva la difficoltà che alcuni resistenti provenienti dall’esercito avevano «a entrare nella logica di un tipo di guerra – la guerriglia – assai diversa da quella tradizionale». Un tipo di guerra, prosegue Galli della Loggia, nel quale, ad esempio, il rapporto con la popolazione civile si presentava in modo particolarmente drammatico, «dato l’ovvio ricorso del nemico a misure di rappresaglia». Tale problema rimandava a quello delicatissimo del ruolo del Partito comunista in particolare «alla sua concezione dei tempi e delle modalità della lotta armata». In che senso? Nell’ottica del Pci tempi e modi della lotta armata «erano interamente subordinati al fine politico di radicalizzare al massimo lo scontro e di conquistare anche per questa via un’egemonia di fatto sull’intero antifascismo con l’evidente proposito di creare per il domani il clima più favorevole a un esito rivoluzionario». Per ottenere questo risultato, secondo i comunisti, bisognava innanzitutto mettere fuori gioco qualsiasi tentativo di «pacificazione» o anche solo di «attenuazione dello scontro tra i due fronti in lotta». E più in generale «esasperare l’urto, scavare un solco incolmabile, creando nell’opinione pubblica un clima di esasperazione e di odio verso i fascisti».

Al tempo stesso, continua Galli della Loggia, era necessario «evitare ogni attesa, accontentarsi di una preparazione sommaria, dare in ogni caso battaglia con tutti i mezzi possibili anche ricorrendo al terrorismo». Di qui nasce il contrasto strisciante, «ma in parecchie occasioni duramente esplicito», che attraverserà tutto il corso della guerra e «avvelenerà costantemente i rapporti tra gli autonomi da un lato e soprattutto gli ambienti garibaldini nonché il Partito comunista dall’altro». Tanto in ambito Cln che a livello locale, sostiene Galli della Loggia, i comunisti rovesciano a ripetizione sulle formazioni autonome le accuse e i sospetti di «attesismo» di «aspettare», di non volersi cioè «impegnare con sufficiente decisione», di andare alla ricerca di «forme di tregua» o, in momenti e situazioni particolari, «di intesa con il nemico». È a questo punto che l’intento dei comunisti diventa quello di «delegittimare l’insieme dell’azione e dei valori degli autonomi». Ne sa qualcosa la Osoppo, su cui la Resistenza comunista mette in giro voci di tradimento, di «tentata intesa con le forze dell’Asse». Voci che serviranno a legittimare l’attacco a mano armata alla malga di Porzûs, dove viene trucidato un importante gruppo di comando della formazione autonoma.
La cosa curiosa è che formazioni come la Osoppo erano affiliate a un partito, la futura Democrazia cristiana, che era destinato a divenire dopo la guerra il partito di governo della Repubblica, sicché sarebbero state poi a vario titolo coinvolte nella costruzione del nuovo edificio politico istituzionale. Ma per la loro «assenza sul piano della narrazione dell’evento resistenziale» – una narrazione come s’è detto egemonizzata da «una storiografia che non nutriva alcuna simpatia politica nei loro confronti» – esse persero in larga misura «la partita della memoria». Per molto tempo il loro ricordo, sia pure tenacissimo, resterà «confinato in alcuni circuiti locali, privo della capacità di allargarsi a un ambito nazionale». Ciò che spiega la loro sconfitta nella «partita della memoria» che a questo punto – malgrado libri come questo di Tommaso Piffer – difficilmente potrà essere riaperta per tempi supplementari.