La Stampa, 12 ottobre 2020
Ritratto di Sidney Lumet
Era un grandissimo affabulatore, e ti dava l’impressione che fosse solo lui a conoscere la storia che raccontava, e nel caso si trattasse di una storia famosa era soltanto lui a conoscerne l’intima verità. Ed era un uomo estremamente spiritoso, nato nel mondo dello spettacolo: aveva imparato sul palcoscenico che anche le cose più serie e importanti si possono raccontare senza annoiare. Sidney Lumet era consapevole del proprio valore, ma dotato di una profonda umiltà. Si definiva un semplice professionista, ma non riusciva a comprendere come la critica non si rendesse conto che avesse uno sguardo e uno stile d’autore: per troppi anni, il fatto che si fosse cimentato in generi diversi lo aveva fatto considerare un semplice mestierante.
Era nato a Philadelphia da due veterani del teatro yiddish, Baruch ed Eugenia: lo portarono a recitare assieme a loro sin un bambino, e ci fu un momento in cui Sidney fu considerato il giovane attore più promettente d’America. Ma poi, con l’avvento della Grande depressione, i teatri yiddish chiusero uno a uno, lasciando la famiglia nella miseria: «Vivevamo in una casa che non aveva una vasca da bagno e potevamo lavarci soltanto in cucina. C’era un solo letto per noi figli e io l’ho diviso con mia sorella fino a quando avevo 12 anni. Avere un vero e proprio pasto rappresentava un’eccezione e una festa». Era troppo giovane Sidney per provare frustrazione, ma sentiva dentro di sé una passione divorante per la rappresentazione. Formò una compagnia teatrale, rinunciando allo yiddish, e poi cominciò a lavorare in televisione diventando uno dei più affidabili registi di programmi dal vivo.
Un dramma scritto appositamente per il piccolo schermo su Sacco e Vanzetti è considerato tuttora un classico della televisione, ed è da quella stessa scuola che proviene la capacità di girare in tempi brevi e la straordinaria abilità di dirigere gli attori. Non è un caso che il suo primo, splendido film, sia ambientato in pochissimi spazi chiusi: La parola ai giurati è già una prova di grande regia che mostra alcuni degli elementi tipici del suo cinema, come il realismo e l’approccio umanista. «Non avevo intenzione di fare un film di denuncia o lanciare un messaggio, ma semplicemente realizzare bene il mio lavoro sapendo che soltanto così il messaggio sarebbe passato». Non tutti i film di quel primo periodo sono indimenticabili, ma sempre di fattura impeccabile, e con interpreti che con lui riuscivano a dare il meglio: oltre a Marlon Brando diresse in quegli anni sia Anna Magnani sia Sophia Loren.
Era un convinto liberal, non fu mai comunista: si oppose duramente al maccartismo, considerandolo un tradimento di quello che significa l’America, e aiutò però molti amici, mettendo a repentaglio una carriera che stava decollando. Insieme con Martin Scorsese e Woody Allen è il regista più intimamente legato alla città di New York: «Appena vado via, anche per un weekend, mi sento spaesato. Non ne parliamo se devo girare un film ambientato altrove».
Era un uomo orgogliosamente metropolitano che apprezzava la vitalità e l’energia del caos cittadino, e nei film questa energia a volte esplode, come in Quel pomeriggio di un giorno da cani, basato su un episodio realmente accaduto: sono molti i motivi che rendono questo film un capolavoro, a cominciare dallo stile documentaristico e l’inedita prospettiva sui protagonisti, due rapinatori di banca per i quali si finisce col fare il tifo. L’energia esplosiva è affidata ad Al Pacino, che regala un’interpretazione indimenticabile, ma il film è una sinfonia strutturata con momenti che vanno dalla rabbia alla tenerezza, dalla passione alla paura, fino a chiudersi in una sintesi di profondissima pietà. Non è l’unico grande film che ci ha lasciato, basterebbe pensare a Il verdetto, scritto da David Mamet, incentrato su un avvocato che avuto un passato glorioso ma è diventato un cacciatore di ambulanze alcoolizzato: anche in questo caso un’interpretazione indimenticabile, stavolta di Paul Newman. Nei suoi film migliori il tema dominante è la ricerca di una giustizia sociale, la rabbia per ogni tipo di abuso e l’anelito di redenzione: è vero che ha trattato generi diversissimi, ma basta leggere con attenzione il senso ultimo di opere come Serpico, Daniel, L’uomo del banco dei pegni e La collina del disonore per riconoscere chi è riuscito a diventare autore proprio perché non ha cercato di esserlo.
Ha avuto una vita sentimentale vivace: ha sposato in prime nozze l’attrice Rita Gam, quindi la miliardaria Gloria Vanderbilt, poi Gail Jones, figlia di Lena Horne, e infine Mary Bailey Gimbel, che è rimasta con lui gli ultimi trent’anni della sua vita. Raccontava di averle amate tutte profondamente e attribuiva a sé stesso i fallimenti dei primi legami. A 83 anni realizzò il formidabile Nel nome del padre e della madre, che aveva la potenza e la vitalità di un film di un giovane di grande talento.
Nonostante sia stato nominato cinque volte, non ha mai vinto un Oscar e poco prima che morisse l’Academy decise di dargliene uno alla carriera: era molto emozionato, e quando salì sul palco non riuscì a trattenere le lacrime. L’ultima volta che lo vidi mi disse che sarebbe ritornato volentieri a Roma, ma nella stagione degli asparagi, di cui era molto goloso. Poi mi spiegò che «ogni regista con un minimo di lucidità sa che il suo mestiere è quello di realizzare un film con il massimo della propria professionalità: i capolavori ti capitano per caso».