La Stampa, 12 ottobre 2020
Intervista a Uto Ughi
Il tempo della pandemia non è forse ideale per un nuovo festival. Ma se non si prendono iniziative l’evo d.C., dopo Covid, rischia di diventare un deserto musicale. Uto Ughi, 76 anni di cui settanta passati con un violino in mano, reagisce con Uto Ughi per i giovani, dal 7 novembre ad Alba, poi in giro per il Piemonte e, si spera, anche nel resto d’Italia.
Di cosa si tratta?
«Tutto nasce dal festival La Santità sconosciuta, dove sono stato ospite per almeno dieci anni, suonando nell’abbazia di Staffarda che è un posto magico. E lì, confrontandomi con Maria Franca Ferrero, che seguiva i concerti con attenzione e passione straordinarie, è venuta l’idea di fare qualcosa per l’educazione musicale dei giovani. Iniziando proprio da Alba, anche perché credo di più nelle iniziative nei posti piccoli che nelle grandi città che sono troppo dispersive».
E così nasce il nuovo festival.
«Possibile che il Paese della musica sia la Cenerentola dell’educazione musicale? L’hanno detto tutti, da Abbado a Muti, ma ancora non si è capito che nelle scuole insegnare la musica è fondamentale».
Manca l’educazione o la divulgazione?
«Entrambe. Per questo la formula che abbiamo messo a punto mira a coinvolgere i ragazzi, a farli sentire parte in causa. Dunque, non le solite lezioni-concerto, ma qualcosa di più agile, prove aperte, dialogo, un rapporto diretto fra gli artisti e gli spettatori. Quando c’è davvero voglia di coinvolgerli, i ragazzi si fanno coinvolgere».
C’è chi dice che il rito del concerto «classico» è intimidente, con il buio in sala, il silenzio, il frac...
«Non credo che l’aspetto formale o rituale abbia importanza. Suonare in smoking o in jeans è lo stesso. L’importante è coinvolgere il pubblico. Non conosco nessuno che non ami la musica. Non la amano perché non la conoscono. Ma è una miniera di capolavori, pronta a elargire i suoi tesori a chiunque voglia raccoglierli».
Capitolo Covid. Si parla di tutto, di calcetto e ristoranti, di mezzi pubblici e discoteche, tranne che dello spettacolo dal vivo.
«Scontiamo la sordità della politica. Sono sicuro che il ministro Franceschini ascolterà la voce del mondo della musica. Anche perché siamo a una svolta delicatissima: se si perde il contatto con la grande musica, l’abitudine all’ascolto, poi è difficile recuperarli. Leggo di un limite di duecento posti per tutti i teatri, indipendentemente dalle loro dimensioni. Mi sembra assurdo».
È un problema politico?
«No, culturale. Per difendere la musica bisogna amarla. O almeno conoscerla».
Intanto il mondo dello spettacolo dal vivo si mobilita, per esempio sabato a Milano con la manifestazione dei bauli. Servirà?
«Non lo so. La disattenzione per la musica precede il Covid. Sono storie vecchie, ma quando furono liquidate tre delle quattro orchestre Rai che erano la spina dorsale della musica sinfonica in Italia l’opinione pubblica non insorse come sarebbe successo, poniamo, in Germania. Detto questo, benissimo far vedere che il nostro mondo esiste».
Come ha vissuto il lockdown?
«Come tutti, credo: chiuso in casa fra tristezza e speranza. Non mi sembra che ci siano molti motivi di ottimismo, specie se la gente si ostina a non rispettare le disposizioni. E tuttavia credo che noi musicisti dobbiamo essere propositivi».
Durante la clausura abbiamo consumato molta musica, ma non dal vivo. Non si rischia di perdere il contatto con gli artisti?
«Sì, il rischio c’è. Se l’artista suona alle stelle manca al suo compito, oltre a farlo peggio, perché il contatto con l’ascoltatore è fondamentale anche per lui. La musica è comunicazione e condivisione. Glenn Gould aveva torto quando decise di fare solo dischi».
L’impressione è che il livello tecnico delle ultime generazioni di strumentisti sia molto elevato. È d’accordo?
«Sì. E tuttavia talvolta mi sembra che oggi fare musica si esaurisca in un dato puramente meccanico. Mancano i punti di riferimento spirituali, i grandi interpreti che incarnavano la tradizione. Quando era annunciato un concerto di Oistrach o di Richter o di Rubinstein, lo si aspettava con ansia e lo si viveva con emozione. Erano eventi, nel vero senso della parola. Non sbagliare le note è il punto di partenza, non quello di arrivo».
Quali violinisti hanno contato di più per lei?
«Ci sono dei grandi che continuo ad ascoltare e riascoltare in disco. Oistrach, Stern, Grumiaux, Menuhin non deludono mai. Ognuno era un mondo. Quando ne sentivi uno, dicevi: è lui il più grande. Poi ne arrivava un altro, e cambiavi idea. Erano figure anche personalmente straordinarie. Ricordo che una volta ero a colazione con Rostropovic a Roma. Aveva un concerto a Santa Cecilia alle 16 e uscì dal ristorante dopo essersi scolato una bottiglia intera di vodka. E io: chissà come farà. Bene: non ho mai sentito le Variazioni su un tema rococò di Cajkovskij suonate così bene».
Ha dei rimpianti artistici?
«Tutto sommato, no».
E personali?
«Sì: non aver potuto vivere una vita più piena. Sono sempre stato lo schiavo del mio strumento. Chi studia il violino deve saperlo: non avrà più tempo per altro. Come diceva Paganini: se non suono per un giorno me ne accorgo io. Se non suono per due, se ne accorge il pubblico».