Corriere della Sera, 12 ottobre 2020
Intervista al criminologo Paolo Giulini
«È stato 25 anni fa. Finii casualmente fra detenuti per reati sessuali nel carcere di Sondrio. Tutti a ripetere “sono un perseguitato”, “non ho fatto niente”. Tutti livorosi verso la giustizia che li aveva mandati in prigione. Mi sono detto: a cosa serve il mio impegno di criminologo clinico con questi signori? A cosa serve il sistema penale se li restituiamo al mondo rancorosi e arrabbiati? Ho perfino pensato di cambiare lavoro...»
Non è andata così. Paolo Giulini – docente di Psicologia dello Sviluppo all’Università Cattolica di Milano – ha continuato a lavorare per la gestione pacifica dei conflitti attraverso il Cipm, il Centro italiano per la promozione della mediazione.
Il Cipm è...
«Una cooperativa sociale. Ci occupiamo della sofferenza dell’uomo. Scomponiamo un atto lesivo, cerchiamo di capire cosa produce e come lavorare con chi lo commette. Proviamo a sciogliere il nodo del conflitto con la mediazione che però non è il nostro focus ma uno strumento. Il fine è la giustizia riparativa».
Torniamo a quella volta che pensò di mollare tutto. Perché poi cambiò idea?
«Perché fra i detenuti sempre muti sulle loro responsabilità un giorno si inserì un caso che mi aprì l’orizzonte. Uno di loro mi raccontò di aver sognato abusi. Il soggetto era il fratello maggiore; lo descriveva come un gigante dalle mani enormi, ondeggiava con la testa descrivendo gli schiaffi ricevuti nel sogno. Ovviamente era il resoconto di una realtà vissuta e grazie a quel modo di affrontarla, alla nostra mediazione, lui cominciò a riconoscere la sentenza, ammise le condotte aggressive, le violenze sessuali sulla figlia di 13 anni... Il “non è vero” iniziale diventò consapevolezza».
E lei non gettò la spugna.
«Esatto. Ho pensato: allora c’è il modo di aprire crepe nella negazione! Ed è così: si può lavorare sulla storia personale di chi commette atti violenti, sui traumi, sulle negligenze dello sviluppo, sul fatto che capisca la gravità delle sue condotte e non la replichi».
Parliamo delle vittime.
«Le vittime sono il cuore di questo ragionamento perché noi puntiamo alla giustizia riparativa che le mette al centro. La chiave di tutto è lei, la riparazione, dove per riparare si possono intendere tante cose: che hai capito fino in fondo il disvalore del tuo comportamento, che hai risarcito il danno, che puoi, sai e vuoi fare azioni che tengano conto delle esigenze della vittima... Si può arrivare anche all’interazione fra il reo e la vittima, o la sua famiglia».
Lavorate soltanto in carcere? Solo sui reati sessuali?
«Siamo anche sul territorio, per esempio a Milano gestiamo il Presidio criminologico territoriale del Comune. Ci occupiamo di violenze nelle relazioni strette: stupri, maltrattamenti, violenza di genere e stalking...».
Quanti gruppi seguite?
«In tutto 34 a settimana, compresi quelli per i parenti dei rei: spesso negano che il loro caro sia un mostro...».
Una storia che non è andata come avrebbe voluto.
«Un ragazzo conosciuto a San Vittore. Era dentro per sei violenze sui treni. Un giorno mi disse: se non mi avessero fermato sarei diventato killer seriale. Aveva fatto un buon percorso con noi, a volte aiutava i nostri operatori a smantellare la negazione di altri violenti come lui. Ma un episodio improvviso lo fece scompensare e diventò un paziente psichiatrico. Oggi si dice “funambolo”, in sospeso sul rischio della recidiva».
La emoziona il suo lavoro?
«Mi commuovo quando vedo che c’è qualità umana nelle persone che trattiamo. Ci fu un uomo, un pedofilo, che dopo due anni di trattamento un giorno venne al gruppo e disse: ho capito che per tutta la vita avrò bisogno di un corrimano. Ecco, quella frase mi ha restituito dignità operativa. Noi siamo il corrimano ma da soli non bastiamo. Serve che lui lo capisca e quella diventa la sua qualità umana».
Ha mai a che fare con stupratori «non guaribili»?
«Diciamo con persone che dichiarano il lutto della sessualità, il “devo chiudere col sesso”. Un signore in un gruppo mi disse: se penso al sesso sono a rischio reato. Non era obbligato a partecipare ma veniva lo stesso per provare a controllarsi. C’è chi viene senza aver mai commesso atti violenti: sentono pulsioni, capiscono di essere a rischio».
Ci dica delle recidive.
«Le do’ un dato. Dal 2005 – da quando esiste l’Unità di Trattamento Intensificato per i rei sessuali nel carcere di Bollate – abbiamo trattato 317 detenuti; recidive: 11».
E il vostro lavoro sulla violenza domestica?
«Collaboriamo al protocollo Zeus della dottoressa Simone, dirigente dell’Anticrimine di Milano. La polizia invita i maltrattanti della prima volta a venire da noi e l’87% di loro lo fa. È una fase molto precoce di violenze, intervenire subito è fondamentale. C’è da lavorare su fattori culturali radicati: “se l’è meritato”, “provocava”, “al mio paese si può fare”... Le posso dire una cosa?»
Prego.
«Sembrerà strano ma in questi casi ril trattamento è più faticoso che mai»