La Lettura, 11 ottobre 2020
QQAN20 La letteratura vista da John Updike
QQAN20
Da un po’ di tempo ho sviluppato un’insana predilezione per gli scrittori che scrivono di scrittori. Mi rendo conto che, buttata lì così, all’inizio di un articolo, possa apparire una velata, capziosa, parecchio inelegante difesa corporativa. Lasciate che ripulisca l’orizzonte da un equivoco così spiacevole.
Sebbene la pratichi da anni, stento ancora a considerare la narrativa un mestiere o una professione, alla stregua, che so, del fornaio o del farmacista. Mi pare che la costanza, l’abnegazione, il rigore che richiede, gli scopi che persegue e i tempi lunghi di cui non può fare a meno la rendano più affine al modellismo, la miniatura e l’antica arte dell’orologeria. Inoltre, il senso della realtà e delle proporzioni mi vieta di ritenermi collega di Cervantes o un credibile allievo di Dickens.
Tutto questo per dire che prendo questa mia passione matura per gli scrittori che scrivono di scrittori per ciò che è: un’inclinazione dettata dal gusto e dal capriccio, in quanto tale gratuita, scriteriata e incontestabile.
Se poco più che ventenne, fresco di studi, divoravo i capolavori di Auerbach, Poulet o Starobinski, oggi, alla soglia dei cinquanta, traggo piacere estetico e profitto intellettuale dalle prefazioni di Balzac e James, dalla corrispondenza di Flaubert, Rilke e Kafka, dai quaderni intimi di Woolf e Cheever, dai saggi di Baudelaire, dalle lezioni universitarie di Forster e Eliot, dalle interviste di Nabokov e Brodskij, dalle recensioni di Manganelli, dalle note che Natalia Ginzburg e Primo Levi erano soliti scrivere alle loro traduzioni dal francese o dal tedesco.
Non arrivo a sostenere, sulla scorta di George Steiner, che la sola interpretazione dell’Odissea degna di nota sia quella che Joyce ha affidato al suo povero peripatetico Bloom. Di nuovo, andiamoci piano con le provocazioni. Mi limito a registrare che il dialogo tra scrittori può riservare sorprese tonificanti. Quando Virginia Woolf nota come la parola «anima» ricorra nei racconti di Cechov non dieci ma mille volte, capisco molto dello spirito cechoviano, ma anche dell’orecchio di Woolf per le ripetizioni. Quando Brodskij si sofferma sull’economia espressiva esibita dal titolo di una celebre lirica di Rilke, notando en passant come il rischio corso da un titolo è di risultare didattico, enfatico, banale o decorativo, la mia mente esulta di fronte a una verità essenziale giunta da una fonte che più diretta e autorevole non potrebbe essere.
Insomma, quando un narratore o un poeta commentano l’opera di un collega, taccio e li ascolto volentieri: forse perché avverto che essi conoscano dall’interno le penose difficoltà pratiche poste dalla creazione di un personaggio o dalla musica di un verso. Chissà che non sia la pratica quotidiana del mestiere a renderli, nel valutare gli altri, meno dogmatici e più comprensivi di un qualsiasi stroncatore di professione. D’altronde, il minimo che ti aspetti dalle divagazioni saggistiche di un narratore e un poeta è che siano lavorate con il gusto, lo stile e la personalità che ne distingue le opere.
Il caso Updik eÈ con questo spirito aperto e ricettivo che ho affrontato le bozze di Armoniose bugie, una raccolta di saggi di John Updike curata da Giulio D’Antona, elegantemente tradotta da Tommaso Pincio, appena pubblicata dalla casa editrice Sur, non nuova a queste imprese.
Date le circostanze, considero John Updike il mio uomo all’Avana. Pochi scrittori, infatti, hanno incarnato, nell’ultimo scorcio di secolo, la figura del grande narratore prestato alla critica, o se preferite, del grande critico prestato alla narrativa. La sua stupefacente versatilità lo ha indotto, nel corso di un’esistenza laboriosa, solitaria e ricca di onori, a pubblicare centinaia di pezzi critici, alcuni dei quali talmente influenti e ben confezionati da rivaleggiare con gli assai più noti capolavori narrativi.
Il solo peccato di questa raccolta è di essere tale. Un assaggio o poco più dell’acribia, la sapienza, la saggezza, lo stile di Updike. Ciò detto, bisogna ammettere che l’antologia è stata allestita da D’Antona con intelligenza. Essa offre materiali molto diversi. Ci sono lunghi saggi sui massimi sistemi letterari (quello sugli arredi nei romanzi è incantevole), conferenze di stretta ispirazione autobiografica, dialoghi immaginari, prefazioni a classici canonizzati o contemporanei, recensioni non sempre benevole ma mai astiose scritte a caldo sulle ultime uscite di colleghi eminenti, e persino toccanti coccodrilli di scrittori amatissimi.
Prima di dare conto di questo ben di dio lasciatemi dire che Updike è stato uno dei massimi stilisti della letteratura americana del secondo dopoguerra. In questo ma solo in questo assimilabile a Salinger. La differenza è che Salinger (come dimostra l’esiguità della sua opera, almeno quella conosciuta), per raggiungere un grado così insostenibile di eleganza, ha dovuto lottare contro i suoi demoni fino a soccombere. Updike, invece, considerando la spaventosa prolificità, poteva contare su una musa generosa e un estro naturale.
A proposito di stile, anche nelle vesti di critico, la prosa di Updike riesce a essere insieme distaccata e partecipe, severa e inventiva. È un magnifico saggista perché scrive i suoi lunghi articoli sul «New Yorker», «Harper’s» o «Esquire» con lo stesso piglio con cui affronta la stesura di un romanzo: come se da quelle poche migliaia di parole dipendesse la sua reputazione postuma.
Lo scrittore pedagogoNella migliore tradizione dei narratori-saggisti, Updike ha la stoffa del moralista. A un certo punto, per dare conto degli effetti collaterali prodotti dalla celebrità letteraria, confessa: «Non passa giorno, nel mio paese nativo, senza che riceva la lettera di uno studente o di un insegnante in cui mi si domanda cosa volessi dire in un certo libro, o mi si chiede di sviluppare in maniera più compiuta una frase a cui ho volutamente dato una forma minimale, o magari mi si invita a parlare di qualche argomento, di solito di natura teologica o sessuale, nella cortese convinzione che io ne sia esperto. Lo scrittore eroe alla Hemingway, alla Saint-Exupéry, alla d’Annunzio, una tradizione di cui Camus fu forse l’ultimo esempio, è stato rimpiazzato in America dallo scrittore pedagogo». Ahimè non solo in America, verrebbe voglia di chiosare. Del resto, in quel medesimo saggio, Updike tesse le lodi della reticenza: un elogio niente male considerando che proviene da uno scrittore che ha trovato mille modi per esprimersi, ma indispensabile a capire lo spirito con cui Updike affronta il suo mestiere, e i confini che impone alla sua partecipazione pubblica. «In generale», scrive, «quando uno scrittore come Sartre o Faulkner diventa un grand’uomo, la sua funzione di testimonianza viene rimpiazzata da una forma di garrulità, per quanto animata da buone intenzioni».
Narrativa, mon amourNeanche a dirlo, lo sguardo di Updike è ostinatamente rivolto alla narrativa. La sua dimestichezza con il cosiddetto romanzo borghese (di cui è uno degli interpreti più eminenti) lo spinge a postulare la centralità occupata dalle questioni romantiche nel magico mondo della narrativa occidentale. Cosa ne sarebbe stato delle Relazioni pericolose, della Certosa di Parma e persino di Guerra e pace se gli autori di questi esaltanti capolavori non si fossero concessi un certo grado di sentimentalismo e licenziosità? Updike ha buon gioco nel sottolineare come anche nella narrativa seria, persino nella più apparentemente contegnosa, i cuori infranti si sprechino. «I romanzi moderni più eleganti e degni di rispetto, dalla Recherche a Lolita, partecipano a questo complotto con la spavalderia del loro virtuosismo. Persino un capolavoro enciclopedico e inflessibile come l’Ulisse in fin dei conti parla di amanti: Leopold e Molly Bloom sono grandi amanti, grandi per la compassione e la fedeltà, fedeltà verso l’altro e verso le loro più intime sensazioni, i loro sentimenti più autentici. E forse in questo romanzo Stephen Dedalus risulta un po’ noioso proprio perché non è innamorato. Non essere innamorati, bisbiglia il Romanzo con la R maiuscola all’Uomo occidentale con la U maiuscola, vuol dire essere morti, in pratica».
Sebbene si guardi dall’attribuire alcuna utilità pratica alla letteratura, sebbene rifugga l’idea pedestre secondo cui la narrativa dovrebbe mettersi al servizio di una qualche grande causa di rinnovamento morale e politico, sebbene dubiti fortemente che leggere romanzi serva a ottenere informazioni di prima mano sui costumi delle cortigiane ai tempi di Balzac o sulle esecrabili condizioni igieniche degli slum londinesi in epoca vittoriana, ciò non di meno Updike attribuisce alla letteratura, alla narrativa, al romanzo un posto preminente nella storia del cuore umano. «Lo scrittore di narrativa è il difensore civico che discute i nostri umili e dubbi casi nei tribunali dell’eternità. La defecazione, gli alticci sproloqui da bar, l’accumularsi di piccole sconfitte quotidiane, la stanchezza e il fetore di amori coniugali pieni di compromessi fanno parte della nostra esistenza? Allora mettiamoli al fianco di Omero, dice l’Ulisse. Abbiamo vissuto malamente la nostra vita nello snobismo, nell’inazione, nella nevrastenia e in un profondo abbattimento? Convertiamo dunque questa vita in una verbosa cattedrale, dice Alla ricer ca del tempo perduto». Se la vita è un ricettacolo di nevrosi, malattie, soprusi, un catasto di morte e insensatezza, un pozzo di gelosie e risentimenti, uno scrigno zeppo di sorprese, nostalgie e delizie, la narrativa è il luogo giusto per dare risonanza a tutta questa paccottiglia apparentemente inservibile, in realtà suggestiva e commovente. La fiducia riposta da Updike nel romanzo è pressoché infinita, quasi religiosa. «La narrativa», scrive, «è in assoluto il più penetrante strumento di autoanalisi ed esibizione di sé che il genere umano abbia inventato finora. La psicologia e i raggi X svelano ombre funeste, i dati demografici e la fotografia stroboscopica offrono analisi ben dettagliate, ma per chi vuole respirare il parfum e gli effluvi dell’essere umano, con la sua ambiguità leggiadra e la sua rancida consistenza – per chi vuole una copia sputata della nostra avventura morale quotidiana così da conoscerla in ogni suo aspetto, non c’è nulla di meglio della narrativa: fa sembrare gretta la sociologia, incerta la storia, bidimensionale il cinema e il “National Enquirer” inutile quanto una scatola di cereali vecchi di una settimana».
Il senso della grandezza e della libertàDate tali magniloquenti premesse si capisce perché Updike, in fatto di arte, sia così esigente, e così irresistibilmente attratto dalla grandezza. Non crediate: non è mica da tutti. Anzi, c’è chi trova conforto nella discrezione, chi si lascia affascinare da timidezze e understatement, chi ha un debole per minori e marginali. Non Updike. Anzi, lui è alla ricerca costante non tanto del genio cristallino, quanto della spavalderia con cui è solito manifestarsi. «Gli artisti che eleggiamo a nostri eroi sono persone come Picasso, Nabokov e Wallace Stevens, gente spavalda che non smetteva di giocare solo perché si era fatto buio. Dovrebbe sempre esserci qualcosa di gratuito nell’arte, allo stesso modo in cui sembra esserci qualcosa di gratuito nell’universo, almeno stando ai cosmologi new wave».
Proprio in virtù di standard così elevati, quasi irraggiungibili, Updike non fa sconti a nessuno, ma senza mai indossare i panni del censore o dell’indignato. Diciamo che in linea di massima rifugge atteggiamenti encomiastici e melliflui. È lui stesso, in uno spiritoso vademecum, a mettere in guardia il recensore-tipo dai rischi legati all’indulgenza e al compromesso, ma anche da quelli derivati dal pregiudizio malevolo. «Non accettare di recensire libri che sei predisposto a detestare, o a farti piacere per ragioni di amicizia. Non vederti come il guardiano di una tradizione, il gendarme di modelli di parte, il guerriero di una battaglia ideologica o un secondino di qualsivoglia genere. Mai, non cercare mai di “rimettere in riga” l’autore, facendo di lui la pedina di una lotta con altri recensori. Recensisci il libro, non la reputazione».
I gusti di UpdikeNaturalmente non sempre i giudizi di Updike su un libro o su un autore coincidono con i miei. Perché dovrebbero? D’altronde, occorre tenere conto che lui, da vero critico militante, si cimenta con le novità editoriali. Ciò gli impedisce di avvalersi della cosiddetta prospettiva storica. E tuttavia, a valutarlo oggi, nessun giudizio sembra scontare i dissesti del tempo. Anzi, visto dalla mia comoda angolazione, le sue perplessità hanno il pregio di mettere in discussione capisaldi in cui mi crogiolo da decenni: tipo, che le prime quaranta pagine di Franny e Zooey siano uno dei vertici della narrativa americana; o che Il dono di Humboldt sia il più grande romanzo di Saul Bellow. Be’, Updike la pensa altrimenti, sia nel primo che nel secondo caso. «In Franny», nota con deliziosa impertinenza, «lo scrittore, più che un osservatore distaccato, sembra un ammiratore della ragazza, uno spione voglioso di vendetta che gode alla minima mancanza di tatto da parte del povero Lane. La sensazione che un altro maschio sia presente è così forte da risultare quasi scandalosa quando, al ristorante, l’autore accompagna Franny nel bagno delle donne». Che dire? Per quanto mi costi ammetterlo, Updike ha ragione da vendere. Anzi, è talmente lungimirante da intuire che i formidabili fratelli Glass minacciano sia la vena di Salinger che la sua delicata psiche.
Al settimo romanzo di Bellow, invece, Updike non perdona lo squilibrio, l’eccesso, la verbosità, la mancanza di centro, e anche in questo caso ci tocca abbassare gli occhi e stringere i pugni contriti.
I FariC’è un momento in cui il mio giudizio ha l’onore e il piacere di sovrapporsi a quello di Updike: quando, sulla scena di questa prelibata antologia, irrompe una coppia mal assortita di attempati scrittori per cui Updike sembra avere un debole; o, se ha senso dirlo, una devozione filiale: Vladimir Nabokov e John Cheever. Dicevo «mal assortita». A prima vista e per parecchi tratti, difficile immaginare spiriti così incompatibili: l’aristocratico russo e il borghesuccio dei sobborghi, lo spavaldo e l’incerto, il giramondo e lo stanziale, il macho e il bisex, il sobrio e l’alcolista... Se Nabokov, da vero rabdomante, sa tramutare la disgrazia in una tripudiante occasione di felicità («la vita è una fetta di pane fresco con burro e miele di montagna»), Cheever ha un talento mefitico nel gettare alle ortiche i doni ricevuti dal mondo («Ci sono pensieri e desideri che si muovono in senso contrario al meraviglioso fluire delle nuvole in cielo, e forse la tristezza più profonda che io conosca è quando sono assorbito in questi»). Ecco allora Nabokov esercitare un tirannico dominio sulla sua ispirazione, e Cheever arrancare dietro ai suoi spettri. Eppure, a petto di tante difformità, i due – peraltro legati da vicendevole ammirazione – condividono un temperamento contemplativo ed estatico che, unito a un amore per le mille ingannevoli rifrazioni del mondo sensibile, consente loro di imprimere a ogni frase un fulgore abbacinante e inconfondibile, e in tal modo di portare l’arte del romanzo e del racconto a un livello di impareggiabile eccellenza.
Se leggerete Armoniose bugie, preparatevi all’epitaffio più dolce e appropriato ricevuto da Nabokov: «Gentiluomo, esteta, metafisico, uomo di spirito: le parole per descriverlo hanno un suono d’altri tempi. Il potere dell’immaginazione non troverà presto un altro campione di pari vigore. Porta con sé il segreto di una creazione esuberante, lascia un’opera splendida». Ma anche al gesto di riconciliazione postuma più tenero che uno scrittore abbia saputo rivolgere a un collega rimpianto. «Cheever era un uomo d’oro, immediato nella sua poesia e istintivamente magnanimo – una di quelle rare persone che accrescono la nostra idea delle umane possibilità».