La Lettura, 11 ottobre 2020
Rospi velenosi e altri flagelli
In quello che lo stesso autore definì il più realistico fra i racconti scritti nel corso della sua vita, Italo Calvino descriveva con estrema precisione la situazione causata negli anni della sua infanzia dall’invasione delle formiche argentine nelle coltivazioni della Riviera di Ponente. La presenza di questi minuscoli insetti, aggressivi e prolifici, era la causa di un indeterminato male di vivere, perché ci si trovava «di fronte un nemico come la nebbia o la sabbia, contro cui la forza non vale».
Una formica argentina è lunga meno di tre millimetri, ma questo minuscolo insetto vive in colonie molto numerose. Le formiche argentine oggi diffuse lungo le coste del Mediterraneo formano addirittura un’unica supercolonia che occupa una fascia lunga seimila chilometri. Quanti individui comprenda, non è noto. Probabilmente, anche più della Very Large Colony di formiche argentine delle coste della California da San Francisco a San Diego, che si stima in mille miliardi di individui.
La formica argentina, scoperta nel 1866 nei pressi di Buenos Aires, è una delle molte specie aliene introdotte accidentalmente dall’uomo in Paesi lontani dalla loro terra di origine. Molte altre, invece, sono state trasferite di proposito e sono poi sfuggite al controllo.
L’arrivo di una specie aliena può avere conseguenze molto serie per la fauna o la flora di una regione, conseguenze addirittura catastrofiche nel caso delle isole oceaniche, dove anche un predatore di modeste dimensioni può sterminare le specie locali, uccelli soprattutto, che non hanno mai conosciuto un nemico fino all’arrivo dell’uomo e degli animali che lo accompagnano: i gatti sono responsabili della scomparsa di almeno 33 specie di uccelli che vivevano solo su una o poche isole sperdute nell’oceano; 14 sono state annientate dai ratti, altre nove dalle manguste.
Vicende altrettanto drammatiche si sono consumate in alcuni bacini d’acqua dolce. Tipico è il caso di uno dei grandi laghi africani, il lago Vittoria, dove fino a mezzo secolo fa erano presenti centinaia di specie di pesci della famiglia dei ciclidi, tutte endemiche, cioè esclusive di quell’immenso specchio d’acqua. Alla fine degli anni Cinquanta dello scorso secolo, però, vi fu introdotto il persico del Nilo, enorme pesce nativo dei bacini del Nilo e del Niger, che arriva a pesare duecento chili. In pochissimi anni, esso ha causato la scomparsa di molte specie ittiche native.
Mutamenti radicali hanno interessato anche le acque dolci italiane. Solo cento anni fa, la lista delle specie straniere presenti nei fiumi o nei laghi della penisola era limitata alla carpa e al carassio dorato, originari dell’Europa orientale e dell’Asia e introdotti già da qualche secolo, e a due pesci americani, il persico trota e il persico sole, introdotti rispettivamente nel 1897 e nel 1900, seguiti poco più tardi dai primi pesci gatto. Oggi le specie aliene sono una quarantina, un numero di poco inferiore a quello dei pesci indigeni.
Molto spesso, il successo di una specie aliena è legato all’assenza, nei territori in cui si diffonde, di predatori capaci di frenarne l’espansione. Combattere una specie aliena introducendone un’altra, capace di nutrirsene, può essere una buona strategia, ma in qualche caso il rimedio si è dimostrato peggiore del problema iniziale. Vale la pena di raccontare due di queste commedie degli errori.
La prima ha per teatro le isole della Micronesia, già invase dai ratti introdotti accidentalmente dall’uomo. Per combattere questi roditori, negli anni Trenta i giapponesi introducono alcuni varani delle mangrovie, robusti lucertoloni lunghi un metro. La scelta, però, si rivela presto sbagliata. I ratti sono attivi di notte, mentre i varani hanno abitudini diurne e per sopravvivere fanno fuori le galline.
Un altro problema, sulle stesse isole, è causato dagli insetti che attaccano le palme da cocco. Nella speranza di controllarne la proliferazione, i giapponesi introducono questa volta un piccolo predatore, il rospo marino. Ma è un altro disastro. I varani attaccano i rospi, questi tuttavia sono tossici e molti varani muoiono avvelenati. Buono per i rospi, il cui numero aumenta rapidamente. Altri predatori – per lo più, a loro volta, specie introdotte dall’uomo come cani, gatti e maiali – cercano di nutrirsene, ma finiscono anch’essi avvelenati.
Anche la seconda storia ha per teatro l’Oceania, in particolare l’arcipelago delle Hawaii, gruppo di isole dove la fauna e la flora, prima dell’arrivo dell’uomo, erano costituite quasi esclusivamente da specie endemiche. In un contesto così particolare, ogni animale o pianta che arrivi da fuori può facilmente rappresentare una minaccia per gli abitanti originari. Una minaccia piuttosto ovvia, ad esempio, quando la specie introdotta è un’enorme chiocciola, con una conchiglia che arriva a 20 centimetri. Questa chiocciola gigante, originaria dell’Africa orientale, è introdotta a scopo alimentare durante la Seconda guerra mondiale. Molto presto, però, le popolazioni locali crescono a tal punto da richiedere una misura di controllo.
A tale scopo viene portata nelle stesse isole una chiocciola americana, anch’essa di dimensioni abbastanza ragguardevoli (conchiglia fino a 7,5 centimetri), nota come chiocciola lupo. Il controllo della chiocciola gigante africana non riesce, ma c’è di peggio. Introdotta nel 1955 nell’isola di Oahu (Hawaii) e di qui in altre otto isole del Pacifico, la chiocciola lupo sazia il suo appetito a spese delle chiocciole endemiche di quelle isole, portandone molte all’estinzione, almeno otto nelle sole isole Hawaii.