Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2020
QQAN93 QQAN62 Nel microcosmo di casa Freud
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Sono molti i luoghi a Vienna che ricordano Sigmund Freud. Il padre della psicoanalisi visse nella capitale dell’impero asburgico dall’età di 4 anni, quando la sua famiglia si trasferì dalla Moravia, in cerca di fortuna. Era il 1860 e la capitale asburgica stava cominciando a vivere una fioritura che l’avrebbe portata ad essere un centro primario per lo sviluppo delle scienze, delle arti, della musica.
La sua infanzia la trascorse nel secondo distretto, quella Leopoldstadt in cui convergevano tanti immigrati di radici ebraiche. Più centrali sono altri luoghi che lo ricordano, come l’università dove studiò e insegnò, o i caffè Landtmann e Korb, dove lo si poteva incontrare. Vi è poi naturalmente la collina nel Bosco Viennese su cui sorgeva il sanatorio di Bellevue, dove lo stesso Freud scrisse di aver scoperto “il segreto dei sogni”, il 24 luglio 1895.
Pochi luoghi sono tuttavia impressi nell’immaginario collettivo come il numero 19 della Berggasse, dove il teorizzatore dell’inconscio visse e lavorò dal 1891 fino al suo esilio nel 1938. Dal 1971 l’edificio ospita il Sigmund Freud Museum.
Ora, dopo un anno e mezzo di lavori di restauro, ammodernamento e ampliamento da 4 milioni di euro, l’istituzione fortemente voluta dalla figlia Anna ha riaperto i battenti, conservando il portone di accesso che per 47 anni utilizzarono anche Freud, i suoi famigliari e i suoi pazienti, ma con numerose novità, in particolare una completa riorganizzazione del percorso espositivo, che ora permette di addentrarsi nell’abitazione, negli ambulatori, nella biblioteca (la maggiore del settore in Europa), senza uno schema prefissato: «Una splendida metafora dell’interpretazione dei sogni: si può scegliere come passare da un piano all’altro, a quali spazi accedere, si varcano molte soglie, si passa di stanza in stanza, ci si addentra o si torna sui propri passi», ci dice la direttrice Monika Pessler. «Il nostro progetto museale – continua – è diametralmente opposto a quello del “cubo bianco”: nei vari spazi esponiamo contenuti che si collegano strettamente alla funzione originaria di quelle stanze».
Al piano terra, nell’ambulatorio in cui nacquero opere fondamentali per lo sviluppo delle teorie psicoanalitiche, ora viene presentata la collezione di arte concettuale del Freud Museum. Lavori affini alla psicoanalisi, di artisti contemporanei di spicco, fra cui John Baldessari, Pier Paolo Calzolari, Ilya Kabakov, Joseph Kosuth, Sherrie Levine, Franz West, Robert Longo.
«L’arte e la psicoanalisi – prosegue Pessler – hanno percorsi mentali che presentano analogie. Ci è sembrato dunque giusto dispiegare le opere per la prima volta in modo permanente proprio in questo appartamento in cui Freud lavorò dal 1896». Grande amante dell’archeologia e quasi invidioso delle capacità della letteratura e del teatro di penetrare l’animo umano, come ebbe a scrivere al coevo Arthus Schnitzler, Freud lasciò quello studio solo nel 1908, quando la sorella Rosa traslocò dal suo appartamento al primo piano e i Freud lo unirono al proprio, creando una zona privata e una professionale.
La nuova scala interna che dall’atrio sale su fino alla biblioteca, ospita la storia dell’intero edificio: «Questa casa non è solo la culla della psicanalisi ma si propone anche come memoriale dell’Olocausto. Nel 1938 Freud riuscì a sfuggire alla furia nazista, ma non quattro sue sorelle, e non i suoi coinquilini, le cui fatali vicende vengono ora ricordate».
Al primo piano un focus è sulla famiglia Freud: Sigmund e Martha, 6 figli, la cognata Minna. Per la prima volta ci si può immergere nel microcosmo privato dello studioso della psiche, in primis nella vita della figlia Anna, anch’essa psicoanalista, presentata nelle due stanze affacciate sulla Berggasse, utilizzate come ambulatorio pediatrico dopo la Prima guerra mondiale.
L’originaria sala d’aspetto dell’ambulatorio di Freud, un luogo iconico perché venne usato anche dalla Società Psicoanalitica per le riunioni del mercoledì, è arredata con quasi tutto il mobilio di allora, e invita perciò ad immergersi nelle atmosfere del tempo. Le altre stanze presentano pochi pezzi scelti: oggetti personali, mobili, quadri, prime edizioni delle opere, strumenti, le preziose fotografie con cui Edmund Engelmann documentò la casa appena prima della definitiva partenza della famiglia per l’Inghilterra: «Non abbiamo il celebre divano, che è rimasto a Londra, dove Freud visse poco più di un anno, e anche della sua collezione di reperti archeologici abbiamo solo un centinaio di pezzi, ora ridisposti là dov’erano in origine: nel suo ambulatorio e nel suo studio privato», spiega ancora Pessler.
È l’omologo museo inglese (si veda su questo la “Lettera da Londra” di Mario Telò del 25 agosto 2019) ad avere il divano e duemila pezzi della raccolta archeologica di Freud, ma è a Vienna che lo psicoanalista visse e lavorò per quasi 80 anni, legando indissolubilmente il proprio nome al fecondo periodo tra ’800 e ’900: «A noi pare che proprio questa parziale assenza di arredi possa tematizzare un ineludibile aspetto: la drammatica cesura dell’esilio forzato e il vuoto culturale dell’Austria dopo il 1938. Non vorrei il divano nemmeno se il museo di Londra ce lo desse – afferma Pessler -, rimetterlo qui significherebbe rimuovere il fatto che Freud abbia dovuto cercare di sottrarsi alla morsa nazista, dunque negare gli effetti devastanti del nazionalsocialismo». Non si è voluta dunque nemmeno una ricostruzione di ciò che venne traslocato poche settimane dopo l’annessione dell’Austria: «Vorrebbe dire falsificare la Storia... non volevamo una messa in scena disneyana». Una scelta votata alla sobrietà, che si dimostra vincente: il genius loci pare aleggiare.
Nella camera da letto dei Freud si trovano i materiali sull’interpretazione dei sogni, «perché è qui che sognava», sottolinea Pessler. Negli spazi che utilizzò Minna sono raccolti invece sia riferimenti a maestri e sodali dell’ascesa dello psicoanalista, quali Jean-Martin Charcot e Josef Breuer, sia mostre temporanee: attualmente su 5 diverse scuole psicoanalitiche.
Un tuffo al cuore per i freudiani è la vista dei grossi, profondi buchi prodotti dai chiodi che fissavano alla parete il tappeto dietro al divano su cui si sdraiavano i pazienti, e che i restauratori hanno ritrovato. In molte stanze, del resto, nei muri si aprono squarci su intonaci e decorazioni che adornavano le pareti originarie: «Anche l’architetto Hermann Czech ha lavorato per così dire in modo psicoanalitico, cercando strati e indizi nascosti e facendoli riemergere come tracce dell’esistenza e dell’attività di Sigmund Freud».
Ora che la sfida museologica appare risolta, in tempi di Covid-19 una prova più ardua aspetta l’istituzione viennese, visto che finora il 90% dei suoi visitatori era forestiero.