La Stampa, 11 ottobre 2020
Intervista all’architetto argentino Emilio Ambasz
L’architetto argentino Emilio Ambasz, cittadino spagnolo per Concessione Reale, è noto come precursore della bioarchitettura.
Quando ha deciso che voleva fare l’architetto?
«Lo sapevo da quando avevo undici anni. Ero un bambino con un’idea fissa. Non mi è mai venuto in mente di fare altro. Tutti i miei giocattoli avevano a che fare con la costruzione di cose. Non sapevo che si chiamasse architettura, ma sapevo che avrei costruito».
Ha seguito il suo sogno ed è andato a studiare architettura a Princeton, dove ha conseguito un Master in soli due anni, come è possibile?
«Sono stato immensamente fortunato. Princeton è unica. È come un’università inglese dove puoi programmare il tuo lavoro. Da matricola, ho fatto una serie di progetti di architettura e il mio professore Peter Eisenman già al primo semestre mi ha proposto il trasferimento al corso avanzato. Ho accettato subito perché odiavo il cibo che veniva servito alle matricole. Il secondo semestre ho frequentato la scuola di specializzazione e poi il secondo anno ho ottenuto un Master. Sono rimasto all’università per insegnare anche se non era la mia passione, mi era stato chiesto dal preside. Poi mi sono dimesso per andare al MoMA, il Museum of Modern Art di New York, per diventare un curatore».
Quanti anni aveva?
«Ne avevo 25 quando come curatore del MoMA ho ideato una mostra intitolata Italy: The New Domestic Landscape. E 27 anni quando ho dato vita a un progetto visionario, The Universitas Project, Solutions for a Post-Technological Society».
Ha costruito in tutto il mondo, in Spagna, Giappone, America, ma vive tra Stati Uniti e Italia. Quando è arrivato in Italia per la prima volta?
«Quando studiavo a Princeton ebbi una borsa di studio estiva, come mi dissero "Per curare i miei nervi". Sono venuto in Europa per la prima volta e mi sono innamorato dell’Italia. Mi sono reso conto di quanto l’Italia sia un Paese estremamente sottile e contraddittorio».
Qual è la sua città d’elezione quando è in Italia?
«Bologna e Venezia mi piacciono molto e vi trascorro la maggior parte del tempo. Sono abbastanza spesso a Milano. Mi piace molto Torino ma non ci vivo. Adoro anche Roma e Firenze, ma alle 6 del mattino quando non c’è nessuno in giro».
Come designer a Bologna nel 1976 con il suo socio di allora, Giancarlo Piretti, ha prodotto l’iconica sedia Vertebra?
«Il punto critico nel lavoro di un designer industriale è la produzione di prototipi, e in Italia ci sono ottimi artigiani con cui ho potuto realizzarli. Non ho lavorato per un cliente, ma per me stesso. Ho inventato i prodotti che volevo, e poi li ho progettati, sviluppati, ingegnerizzati, ho costruito i prototipi, li ho testati, ottenuto i brevetti, e poi sono arrivato alla produzione degli utensili e dei macchinari per realizzare il prodotto».
Ha anche costruito il Lucille Halsell Conservatory a San Antonio, in Texas?
«Il compito dell’architetto è quello di conciliare ciò che facciamo con la natura che ci è stata data. Spero che la mia architettura rappresenti una conciliazione pratica tra la natura e gli edifici».
La Casa de Retiro Espiritual che ha costruito a circa 40 chilometri a nord di Siviglia, è particolarmente importante per lei. Perché ha adottato questo approccio pionieristico?
«Non posso davvero rispondere perché non penso in modo razionale, creo immagini. Sono un creatore di immagini e penso per immagini. L’immagine da cui tutto è iniziato è La Casa del Retiro. Quando feci quel progetto nel 1975 non mi rendevo conto di quello che stavo facendo, l’ho fatto e basta. È stato solo quando ho guardato la Casa del Retiro dopo averla progettata che ho potuto razionalizzare le idee in essa contenute, ad esempio, l’uso della terra, l’idea di integrare l’edificio nel paesaggio in modo che sia impossibile separare l’edificio dal paesaggio. L’idea è di utilizzare il terreno come mezzo per fornire riscaldamento e raffreddamento in modo automatico ed economico».
Nel 1980 e il 1998 ha realizzato una serie di progetti. Perché queste opere sono così diverse tra di loro?
«Forse perché non sono un architetto, forse perché sono un inventore. Un inventore non arriva con una serie canonica di risposte. Un inventore deve esaminare il problema e fornire una soluzione con il materiale a portata di mano».
Non si considera un architetto?
«Mi considero qualcosa di più: un inventore. Sarà difficile dimostrare che sono un architetto perché ho frequentato l’università e la scuola di specializzazione in due anni. Sarei dovuto restare più a lungo, avrei imparato qualcosa. Sono andato troppo veloce, quindi probabilmente non ne so abbastanza di architettura, ma so che di fronte a qualsiasi problema cerco di trovare una soluzione».
(Traduzione di Carla Reschia)