la Repubblica, 11 ottobre 2020
Calenda e un lavoro che nessuno vuole fare
Uno che vuole fare il sindaco di Roma, a meno che sia Alarico o Massimo Carminati, merita di essere bene accolto a prescindere. Di più, bisognerebbe fare in modo che non cambi idea, farlo accomodare in una apposita saletta, dirgli «per carità stia fermo qui, non si muova», poi andare nella stanza adiacente e dire ai propri amici e colleghi «ragazzi, non ci crederete, ma di là c’è un matto che dice di voler fare il sindaco di Roma, per carità non lasciamocelo scappare».
Per dire che se fossi il Pd, e nascosti nella manica non avessi un paio d’assi (Barack Obama? Michelle Obama? Ma Goffredo Bettini sarebbe d’accordo?), sulla candidatura di Calenda mi butterei a pesce, senza chiedermi per più di dieci-quindici secondi se sia troppo di centro (lo è) e troppo supponente (lo è). L’impronta ideologica di un sindaco conta pochino – a meno che sia Alarico o Carminati –, conta la voglia di lavorare come l’ad di una multinazionale guadagnando come il suo autista, di andare nei quartieri a prendersi dei gran brutti nomi, di spalare il fango quotidiano della burocrazia (altro che sangue e merda: la politica è polvere e noia), di avere, se la città è importante come Roma, più responsabilità di un ministro e meno potere di un capo-dipartimento, che se gli gira storto insabbia le pratiche. Nel caso fosse eletto Calenda, basterebbe sequestrargli lo smartphone per un annetto, che è come levare la slot-machine al ludopatico, e lui il sindaco lo farebbe per davvero. Ma di politica non capisco niente, magari è meglio che il Pd candidi Busella o Carunzio, che ancora non sapete chi sono ma si tratta di funzionari bravissimi, e non pianterebbero grane come Calenda.