il Giornale, 10 ottobre 2020
Mark Vanderloo resta il modello più bello del mondo
«Ecco, lo sapevo: lei mi vuole registrare... E così m’inchioda! Che dire? Sono finito, preso all’amo, qualunque cosa dichiari poi mica posso scappare, ritrattare, è lì nel telefonino... Lei mi ha catturato... Cat-tu-ra-to!».
Maglietta marrone con scollatura a v, un paio di jeans qualsiasi, sneakers, occhi verdi che perforano, capelli come capita, arruffati un po’ qui e un po’ là, ma francamente chi se ne importa?
Mark Vanderloo esce dall’ascensore ed entra sulla terrazza con piscina dell’hotel milanese «Vio», saltellando e muovendosi a ritmo di musica sulle note di Are you gonna be my girl degli Jet, facendo le boccacce e puntando il dito contro la sottoscritta. E già questo gli regala da subito un numero incalcolabile di punti. Sì perché sembra non siano mai passati trent’anni, quando lui ne aveva 22, era l’uomo più gettonato delle passerelle di quelle che ancora non si chiamavano «fashion week», si vedevano sfilare dee come Linda Evangelista, Christy Turlington e Claudia Schiffer (tanto per citare tre nomi a caso) mentre lui, eletto il modello più bello del mondo, si era sposato – giovanissimo, tanto per coronare la favola e dare fiato al gossip – con un’altra super top, Esther Cañadas. Bei tempi? Decisamente. Lui però adesso è quasi meglio perché, giovanissimo, poteva sembrare solo un gran bel pezzo di figliolo ma con l’aura di chi è lontano anni luce dalla realtà, ora si scopre invece che è anche simpatico, accattivante, si prende pure in giro e... Sfila ancora in qualità di guest star! Quando lo incontriamo è reduce infatti dallo show di Fendi dove si è esibito con grandi ex top model: Yasmin Le Bon (55 anni, moglie del frontman dei «Duran Duran» Simon, tre figlie e... già nonna!), Eva Herzigova (47 anni, tre figli) e persino la mitica Penelope Tree (70enne).
Incontrare un mito fa sempre un certo effetto. Quando poi è uno dei «tuoi» miti, beh, allora si rischia di fare la faccia da soufflé mal riuscito, da triglia insomma. E allora passiamo subito alle cose serie, Mr Vanderloo.
Lei è nato e vive in Olanda. Avete tanta paura del Covid lì?
«Non è un’influenza qualsiasi, è difficilissimo risalire alla causa principale, anzi, alle cause principali, che sono diverse e che non conosciamo. Non credo troveremo il vaccino nei prossimi sei mesi, c’è da sperare che ci riusciremo nei prossimi due anni...Nel frattempo dobbiamo vivere purtroppo così, con l’incertezza, che per un essere umano è la cosa peggiore. E dover pensare di averlo praticamente sempre attorno a noi».
C’è chi temeva di essersi ammalato, di avere tutti i sintomi del coronavirus, poi invece...
«Io sono tra questi. Sono ipocondriaco. Ho avvertito ogni genere di sintomo poi ho fatto tamponi su tamponi, tutti gli accertamenti possibili e non avevo nulla...Ma si sa la paura, la mente, giocano brutti scherzi. E vivere con questa sensazione addosso, temere di potersi ammalare e morire, non è il massimo».
E le mascherine? Le sopportate anche voi a mala pena?
«In Olanda la gente usa mascherine e tiene le distanze. Tuttavia anche nei Paesi stranieri dove sono stato più di recente, non solo qui ma anche in Spagna e in Portogallo e dove ci sono state più perdite, più morti che da noi, le persone le utilizzano sempre, osservano le distanze, sono e restano molto preoccupate. Ma è normale».
Come ha trovato Milano? Lei ci viene da sempre per lavoro, la conosce bene...
«Sono venuto qui con la mia famiglia anche due settimane fa, in vacanza. Beh, sì, la città è diversa da quanto non lo fosse in passato. Credo che tutti noi dobbiamo fare il massimo, mettercela tutta non solo perché il Covid non si espanda ulteriormente, ma anche perché clima psicologico che il contagio ha creato non peggiori. Dico tutti noi perché anch’io lavoro qui, ho amici, colleghi, fotografi e collaboratori che interagiscono con me, alcuni da una vita (e dicendolo guarda con affetto Rosa Sarli che lo ha scoperto in Olanda quando lei lavorava per l’agenzia di moda Beatrice, mentre ora è socia con Paola Baratto della Special Management Men).
Un esempio?
«Noi modelli di fronte alle telecamere e alle macchine fotografiche, mentre lavoriamo, non indossiamo le mascherine. Invece tutto il team in questi giorni trascorsi qui a Milano lo ha fatto sempre, sempre, sono stati molto cari, generosi... Ecco: dobbiamo cominciare a pensare in questa direzione. Potrebbe non essere un problema per me, io potrei non ammalarmi ma... Gli altri? Nessuno deve più ragionare in maniera egoistica, non possiamo più abbassare la guardia».
E proprio in relazione a questo morbo come ha trovato la moda a Milano durante questa fashion week?
«Basta osservare lo show di Fendi a cui ho appena finito di partecipare. Creazioni così belle da lasciare senza fiato, un’inventiva senza limiti, una visione dello stile incredibile, un’eleganza strepitosa. Forse ai bordi della passerella non ci saranno stati tutti i buyer del mondo, tutto il pubblico che si presentava di solito, il numero di clienti e giornalisti che ci si sarebbe aspettati in una sfilata normale. Eppure se chiediamo ai buyer, al pubblico e ai clienti che erano online avremmo raccolto solo espressioni di meraviglia. E la meraviglia, se ci caliamo in questo contesto, per un prodotto tanto bello, diventa speranza. Soprattutto se possiamo guardarlo e riguardarlo».
Si riferisce agli eventi digital?
«Esattamente. Permettono di tornare indietro e di focalizzarsi su determinati particolari, offrendo così anche una chance in più in un certo senso. Basti pensare che fino a poco tempo fa venire a Milano per la settimana della moda si traduceva per gli addetti ai lavori in vere e proprie corse in giro per la città per assistere a una serie di eventi (40? 50?) che si svolgevano l’uno dopo l’altro in una successione frenetica. Ora puoi prenderti il tuo tempo, cliccare rewind, gustarti lo show anche a livello di atmosfera. Per me questo potrebbe costituire addirittura un vantaggio per il mondo della moda».
In quest’ottica, nonostante il momento critico che stiamo attraversando, si sente un uomo fortunato, un professionista che ha goduto di una posizione «storica» di privilegio?
«Mi sento fortunato ad aver sfilato nello show di Fendi perché ne ho potuto osservare la realizzazione, la presentazione finale...Era una sfilata dal vivo, c’era il pubblico, ma è stato anche un evento digital. Le assicuro che ho partecipato a tante sfilate nel corso della mia carriera, ma mai la costruzione, passo a passo, di un evento che ho trovato ben fatto, addirittura eccellente, mi ha colpito così tanto come questo. Inoltre è stata creata un’atmosfera magica, con queste tende bianche che si muovevano, tutto fluttuava con grande naturalezza e spontaneità...Un incanto, davvero: chi ha realizzato tutto questo sapeva come farlo e come farlo al massimo livello...».
E l’evento digital quindi a suo parere sublimerebbe tutto questo?
«Credo che chi osserva l’evento digital – la sfilata così com’è al termine della realizzazione, il prodotto finito – possa avere l’opportunità di provare queste stesse sensazioni al meglio, andando avanti e indietro, focalizzandosi sulle immagini, soffermandosi sui particolari e quindi capire e carpire al meglio il messaggio del designer, delle sue creazioni, della collezione e quindi del brand...A volte non si ha bisogno d’indossare gli occhiali per vedere il sole...».