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 2020  ottobre 10 Sabato calendario

Orsi & tori

È stata un’asta asimmetrica, perché c’era un partecipante decisamente più forte degli altri, così, per una volta, l’Italia ha vinto sia pure in tandem con la Francia. La forza dell’Italia è stata la decisione, sollecitata dalla Consob, di avere in materia di cambiamento di controllo della Borsa Italiana poteri duplici speciali. Quando questi poteri sono stati concessi, è apparso chiaro sia alla Borsa di Zurigo che a quella di Francoforte che difficilmente avrebbero potuto competere e vincere. Per questo hanno puntato su un’offerta in denaro molto alta. E naturalmente ciò ha fatto il gioco del venditore, il London stock exchange, che avendo pagato nel 2007 Piazza Affari circa 1,6 miliardi di euro ora ne incassa 4,3 di miliardi.Ma il gioco è valso la candela anche per Cdp e Banca Intesa Sanpaolo, che per avere rispettivamente l’8 e il 2% non della Borsa italiana ma di tutta Euronext, che di Piazza Affari possederà il 100%, faranno fronte insieme a circa 2,4 miliardi. Ma il gioco vale la candela soprattutto per l’Italia intera, che, avendo un peso pari a quello francese in Euronext, potrà contribuire a sviluppare un mercato europeo dei capitali rivolto, in primo luogo, alle pmi di cui l’Italia abbonda e che hanno una fame atavica di capitali per potersi prima salvare dal disastro del Covid e poi svilupparsi quando l’economia tornerà a crescere.Euronext, nonostante il prefisso euro, è ancora lontana da poter essere ed essere considerata la Borsa della Ue. È fuori, probabilmente per molti anni, la Borsa di Madrid, che proprio un anno fa è stata acquistata dalla Borsa di Zurigo, e soprattutto è fuori la Borsa di Francoforte oltre a quella di molti paesi minori. In questo contesto l’adesione dell’Italia a Euronext vale molto di più che il recupero da Londra della Borsa italiana e dell’Mts, il mercato dei titoli di stato, che è uno dei pochissimi effetti positivi dell’immenso debito. L’adesione dell’Italia, che è per dimensione il secondo mercato borsistico in Euronext dopo Parigi, ha un valore enorme per l’idea europea. Ed è significativo che a investire sia stata Cdp, equivalente anche nella partecipazione di Casse de depot et consignations (Cdc) francese, e Intesa Sanpaolo, prima banca italiana al pari di Bnp-Paribas, anch’essa ai vertici del sistema bancario francese e azionista di Euronext. Almeno nella forma è già una partnership italo-francese simmetrica e paritetica. Deve diventarlo anche nella sostanza. E sembra possibile.
Con una presidenza esecutiva italiana (forse assegnata all’attuale direttore generale del Tesoro, Alessandro Rivera) e un ruolo fondamentale di Milano.
Questo giornale insiste da anni sulla necessità che Milano sia veramente «Milano capitali», come è stato il titolo dell’evento organizzato da Class Editori per il secondo anno consecutivo l’11 maggio scorso e al quale ha partecipato proprio il ceo di Euronext, Stephane Boujnah. E Milano, come seconda borsa di Euronext, sarà sicuramente una piazza fondamentale. Probabilmente, per un anno, il ceo di Borsa italiana sarà ancora Raffaele Jerusalmi, così come rimarrà al suo posto il ceo della stessa Euronext.
A Parigi c’è un mercato per le pmi, Enternext, molto più sviluppato dell’Aim Italia. Sono state quotate a Parigi oltre 800 imprese per una capitalizzazione di circa 126 miliardi di euro. Aim Italia seguiva non pedestremente l’Aim di Londra. Le procedure del mercato francese sono più semplificate di quelle dell’Aim Italia: è quindi possibile che anche l’Aim, che potrebbe cambiare nome, sia allineato a Parigi. In ogni caso, il senso dell’operazione franco-italiana e delle altre borse europee che fanno parte di Euronext è quello di allargare gli orizzonti e far crescere il numero delle società quotate, che già prima dell’arrivo di Borsa Italiana sono oltre 1.800. Più società sono quotate e più variegata e quindi più attrattiva è l’offerta per gli investitori. Fra l’altro, questa operazione potrà sanare il vulnus che era stato creato dalla fusione fra Luxottica e Essilor, in base alla quale è nata EssiLux, quotata solo a Parigi (per volontà di Leonardo Del Vecchio o dei francesi?) con la scomparsa nel listino di Milano di un titolo del peso della società italiana di occhiali.
Potrà, dovrà cambiare, grazie alle economie di scala, anche la politica tariffaria della distribuzione dei dati di Borsa e della negoziazione degli indici. Il London stock exchange si era, su questo punto, reso protagonista di un gravissimo atto, creando una società, direttamente posseduta da Londra, che faceva concorrenza con dumping rispetto alle società italiane di distribuzione dei dati. Non dovendo pagare i dati, li vendeva sul mercato sottocosto rispetto al prezzo a cui li cedeva ai distributori accreditati. Di fronte a un simile atto contro le regole del mercato, Class Editori, presentò denuncia all’Antitrust italiano. L’indagine, condotta dai bravi funzionari dell’Autorità per il controllo della concorrenza, accertò questo reato economico e per evitare che fosse emessa una sentenza di condanna di Lse e di Borsa Italiana le due società si impegnarono a vendere la società operativa, ma per limitare le possibilità di acquisto unirono alla società dei dati anche il Nis, dove vengono stoccati i comunicati delle società quotate. Con la stessa logica imperialista vigente a Londra, impedirono a Class Editori e ad altre società interessate di poter visionare la data room per fare un’offerta. Si giunse così a una trattativa diretta con Mediobanca che divenne inopinatamente distributore di dati di Borsa. È passato poco tempo e Mediobanca ha deciso saggiamente di vendere gli asset relativi alla distribuzione di dati, conservando la proprietà solo del Nis. Gli asset di distribuzione dei dati sono stati acquistati da una società norvegese.
In una chiave di sviluppo degli investimenti nel listino della Borsa Italiana, occorrerà che la politica tariffaria consenta la massima diffusione possibile delle quotazioni anche presso le pmi, perché possano avvicinarsi alla borsa, moltiplicando ancor più di adesso l’ingresso all’Aim o ex-Aim. Non è una scoperta né una novità che la cultura finanziaria e borsistica italiana sia molto bassa. Quale migliore strumento di acculturamento può esserci se non la conoscenza del listino e degli andamenti delle società?
Oggi nel paese c’è la consapevolezza della assoluta necessità di avvicinare, anzi far entrare il molto consistente risparmio degli italiani in investimenti nell’economia reale. Per fortuna sta crescendo sempre di più il ruolo degli intermediari finanziari, ma mentre negli Usa, così come in Inghilterra, quando nasce un bambino viene spesso iscritto a una scuola seria e altrettanto spesso ha già un broker di riferimento, in Italia, proprio per la scarsa cultura finanziaria, in prima battuta il risparmio finisce in conti correnti bancari.
Appare necessario che anche in considerazione dell’investimento pubblico in Euronext, attraverso Cdp e la più grande banca privata del paese, si debba avviare un’azione diretta di conoscenza del mercato da parte degli italiani.
L’operazione, che è stata approvata nella giornata di giovedì 9 dai vari consigli d’amministrazione, è di fatto il recupero del gravissimo errore compiuto nel 2017.
Allora Borsa Italiana, trasformata in spa privata nel 1998, era posseduta da alcune banche, da alcune fondazioni bancarie e da altri azionisti legati all’attività di mercato. Il London stock exchange propose di apportare Borsa Italiana spa all’Lse group. Non era certo un momento brillante per il settore bancario, ma prevalse una sorta di contagio e un po’ tutti decisero di vendere invece di convertire. Se i soci italiani avessero convertito le azioni di Borsa Italiana spa in azioni del Lse group avrebbero, insieme, posseduto la quota maggiore del capitale della capogruppo inglese.
L’unico che tentò di resistere e di fare proseliti in tal senso, potrà sembrare sorprendente, fu Giuseppe Mussari, ex-presidente della Fondazione Monte dei Paschi di Siena, ex-presidente dell’Abi ed ex-presidente, tragicamente, della Banca Mps. Fatte salve le sue successive disavventure, dovute anche ad errori personali, Mussari era l’unico che si espose perché i vari soci italiani di Borsa Italiana spa non vendessero o che comunque convertissero le loro azioni con quelle della Borsa inglese. Se fosse stato ascoltato, la negoziazione di questi giorni sarebbe stata più facile e il peso in Euronext, se si fosse presentata l’operazione di integrazione, sarebbe stato superiore, dato che l’apporto di Borsa Italiana in Lse aveva messo in mani italiane il 28% del capitale, mentre era in vendita la quota posseduta dal Nasdaq nello stesso Lse. Infatti, per la borsa americana della tecnologia era fallita la possibilità di prendere il controllo di Londra e quindi gli americani erano pronti a vendere per 1 miliardo di euro la quota che, sommata al 28%, avrebbe formato la quota di comando assoluto. A occuparsi dell’operazione era a Londra, Enrico Bompieri, nipote di Carlo, l’ex-capo della Comit dopo Raffaele Mattioli.
Ma appunto non se ne fece nulla. Nel 2010 abbandonò, non spontaneamente, la carica di ceo dell’Italia e vice ceo a Londra, Massimo Capuano.
A raccontare i retroscena di questo insuccesso del sistema italiano, è stato nel 2010, in un intervista a MF-Milano Finanza, il direttore generale di Fondazione Mps, Marco Parlangeli, che aveva condotto le trattative anche per conto delle altre fondazioni bancarie, Cariplo e Crt. «Mi resi subito conto che furono Capuano e la ceo di Lse, Clara Furse, a esprimere un giudizio non favorevole al nostro ingresso nel capitale del gruppo nato dalla integrazione fra Milano e Londra», spiegò allora Parlangeli. «Ci dissero che nonostante fossimo rispettabili fondazioni, cioè investitori di lungo termine, non eravamo graditi in posizione di maggioranza. Non ho mai capito perché quei no, se non tenendo conto che i manager preferiscono le public company». MF-Milano Finanza titolò allora: «Non ho mai capito quei no di Capuano», che comunque poco dopo diede le dimissioni con una consistente liquidazione. Nel maggio del 2012 Intesa Sanpaolo e Unicredit annunciarono il collocamento delle rispettive intere partecipazioni nel Lse, pari a 5,4% e al 6,1% (11% in totale) dell’Lse.
Per la costante analisi di tutte queste evoluzioni, questo giornale è stato l’unico che negli anni ha richiamato l’opportunità di ricomprare da parte di investitori italiani Borsa Italiana. Anche perché era evidente che era la gallina dalle uova d’oro di Lse. Oltre ad avere uno straordinario strumento di mercato qual è l’Mts, cioè il mercato dei titoli di stato.
Dall’8 di ottobre 2020, inizia un’altra storia. C’è da augurarsi che il sistema Italia non si faccia mettere i piedi sulla testa un’altra volta e che il matrimonio con Euronext sia non solo di lunga data ma anche strumento per far evolvere il mercato italiano, creando il mercato europeo dei capitali di cui molti, nel resto d’Europa, si riempiono la bocca. Una borsa realmente europea sarebbe un passo avanti importante verso una vera Europa unita. La palla ora è ai tedeschi. Dopo aver tentato di comprare Borsa Italiana, non sono interessati a unirsi a italiani e francesi? L’occasione per spostare l’asse finanziario dalla City di Londra all’Europa centrale dopo la Brexit è allo stesso tempo un’opportunità e una necessità.