Tuttolibri, 10 ottobre 2020
6QQAFM14 Intervista allo scrittore Thomas Gunzig
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Quasi per gioco Thomas Gunzig, scrittore irriverente, e Jaco Van Dormael, regista surreale, amici ed entrambi terribilmente belgi, scrissero la sceneggiatura di un film uscito nel 2015, Dio esiste e vive a Bruxelles, la rivisitazione blasfema e post moderna della Bibbia, con un Dio sadico e dispotico. Un successo inaspettato. Adesso stanno preparando un nuovo film insieme. Ma intanto anche la carriera da romanziere di Gunzig corre. Il suo ultimo libro è Feel good, appena pubblicato in Italia da Marcos y Marcos. Stavolta Thomas applica il suo humor sferzante alla realtà: la storia di due sfigati dei nostri giorni, Alice, disoccupata ormai disperata, e Tom, romanziere produttivo ma senza successo, che s’incontrano e realizzano la loro rivolta personale. Nei libri precedenti, invece, lo scrittore aveva strizzato l’occhio alla fantascienza e all’immaginifico spinto. «Ma quello che tenta Alice, uno dei due protagonisti, il sequestro di una neonata in un asilo di ricchi, per chiedere un riscatto e finalmente sfangarla, è comunque molto strano», commenta Gunzig, collegato via skype da Bruxelles. È un romanzo sulla precarietà sociale e sul ruolo dello scrittore, pure sull’istinto di sopravvivenza. Thomas, che dimostra meno dei suoi cinquant’anni, è uno spilungone dai capelli neri e crespi, i modi gentili. Ma quando scrive può diventare perfido, spiazzante, divertente.
Cominciamo da Alice, chi è?
«Ha qualcosa di me, l’angoscia che manchino i soldi. Proviene da una sorta di ceto medio che si è impoverito poco a poco, è pure la mia storia. Alice non ha un patrimonio su cui contare, non ha ricevuto un’eredità: vive solo del suo lavoro. In più non ha una formazione professionale particolare. A 48 anni perde il suo posto di sempre, commessa in un negozio di scarpe, e non ritrova più nulla. Ma Alice è resiliente: riesce a cavarsela sempre, anche utilizzando metodi non proprio legali».
È molto ostinata, non molla mai…
«Tocca il fondo, ma trova sempre qualche risorsa in se stessa, il coraggio, l’energia per venirne fuori. Una delle sue forze è la capacità di arrabbiarsi. È cosciente del mondo dove vive, delle sue ingiustizie. Non ha soluzioni miracolose ma la rabbia che prova è capace di farla agire in permanenza».
Commette una pazzia. E in quel momento incontra fortuitamente Tom….
«Ecco, in lui si ritrova un’altra sfaccettatura di me».
Che percentuale c’è di lei in questo scrittore in difficoltà?
«Direi l’85%. È un ragazzo che ha avuto un percorso scolastico difficile. E che ha dei genitori un po’ strani. Proprio come me».
Sono due gilet gialli? Come i francesi ribelli del ceto medio impoverito?
«Sì e no. Come loro vivono un profondo sentimento di rabbia rispetto a quello che si può chiamare il sistema. Ma non hanno la loro capacità di organizzazione. Non sono persone che vanno a manifestare per strada. Li vedo al balcone a guardare i gilet gialli sfilare, senza scendere in piazza. Quella di Alice e di Tom è una rivolta disorganizzata».
Al pari di Tom lei è figlio di uno scienziato...
«Sì, mio padre è nell’astrofisica. E, come per Tom, gli psicologi si concentrarono sul mio caso, quando avevo cinque anni. Per una forma di dislessia, mi valutarono incapace. Fino all’età di 12 anni, mi misero in quello che in Belgio si chiama l’insegnamento speciale, destinato ai bambini che hanno problemi intellettuali. Mi ritrovai con personalità strane».
Ha un brutto ricordo di quell’esperienza?
«Mi sentivo diverso dai compagni. Come Tom nel romanzo, durante la ricreazione mi rifugiavo nella lettura, perché mi lasciassero in pace. Scoprii così l’immaginario».
E poi, come Alice, anche sua madre ha avuto grossi problemi finanziari…
«Entrambi i miei genitori hanno gestito molto male i loro soldi. Si sono divorziati e mamma si è ritrovata in difficoltà: rubava nei negozi per portarci a casa la sera un po’ di formaggio o di prosciutto, è quello che fa anche la protagonista del romanzo. Quanto a mio padre, è sprofondato nella delinquenza. Ha trafficato diamanti e si è ritrovato in carcere in India, quando avevo 15 anni».
Un altro personaggio interessante è Séverine, che Alice incontra dopo tanti anni. Era la sua amica d’infanzia, di una famiglia abbiente. Che succede?
«Non va molto bene. Séverine non ha mai dovuto lavorare davvero, né battersi. È completamente estranea ai problemi quotidiani della maggior parte della popolazione. Non può capire come si possa essere infelici in un luogo così bello come il mondo: formidabile, ma solo per la gente come lei. Per loro aiutare l’altro e sborsare concretamente qualche soldo diventa quasi volgare. E pensano che non s’incoraggi al lavoro, a uscirne davvero. Invece, è solo freddo individualismo. Una mancanza d’empatia, di curiosità, di sensibilità. Un’anestesia: incapaci ad ascoltare l’infelicità del mondo».
Scrive sempre romanzi autobiografici?
«No, per nulla. Come Tom, scrivo storie alla frontiera del fantastico e della fantascienza».
Per uscire fuori dalla loro impasse e fare un po’ di soldi, Alice e Tom decidono di scrivere un «feel good book». Di cosa si tratta?
«Tutto è nel nome, un libro per sentirsi bene. A priori non ha altra ambizione che far provare al lettore un certo benessere, mostrandogli la realtà da un punto di vista carino, gradevole. I personaggi, anche se hanno dei problemi, finiscono per risolverli. Sono libri che funzionano molto sui cliché, sugli stereotipi, sui luoghi comuni. E, sotto un’apparenza innocente, sono conservatori. Un libro feel good ti dice: se non stai bene, è sufficiente guardare il mondo diversamente, così vedrai tutte le belle cose che vi si trovano dentro. È un punto di vista molto angosciante».
Lei ha mai cercato di scrivere un libro "feel good"?
«Sì, molto tempo fa. Ero già geloso di questi autori che vendono 300-400mila copie dei loro libri, testi che a me sembrano completamente idioti. Mi sono detto: risolverò i miei problemi finanziari una volta per tutte. Ma mi sono reso conto che è molto complicato scrivere un libro feel good. Bisogna avere una propensione alla malafede e alla bugia. Si deve essere disonesti. E ricorrere alla manipolazione del proprio pubblico: è difficile da mantenere alla lunga, perché ti rende profondamente triste in quanto artista. Alla fine ho lasciato stare».
Cosa c’è di belga nei suoi libri?
«Per me è difficile rispondere. Ma, sulla base di quello che dicono gli altri, si tratta di una certa autoderisione, una forma di surrealismo, uno strano senso dell’umorismo. Poi noi belgi francofoni abbiamo un rapporto più libero con la lingua rispetto agli autori francesi. Loro scrivono immaginando che sulle proprie spalle gravino Molière, Voltaire e Proust. Mentre la storia letteraria del Belgio è più strana: abbiamo Georges Simenon e il realismo fantastico, che ha flirtato con l’immaginario, vedi Henri Michaux. Tutti loro hanno un rapporto con la lingua più disteso, ludico. Forse più poetico».
Siete più liberi…
«Conta anche il fatto di non essere a Parigi, di non essere sottoposti alla pressione dell’ambiente letterario di quella città, altamente autorefenziale. Ci dà più libertà tematica e stilistica».
Sta lavorando a un nuovo libro?
«Sì, ritorno al fantastico. Alla fine di Feel good accenno a un romanzo intorno a una mucca. Ecco, adesso lo sto scrivendo. È la storia di un uomo che si ritrova ad accogliere a casa sua una giovane donna, molto bella. Ma in realtà è una mucca geneticamente modificata».
Nuovi film in vista?
«Sono su quattro sceneggiature. E una assieme al regista Jaco Van Dormael, con cui avevo già scritto il film Dio esiste e vive a Bruxelles. Jaco è un amico: mi piace lavorare con gli amici».
Lei è molto sportivo. Che c’entra con la letteratura?
«La relazione è importante. Arrivo a concentrarmi solo dopo aver fatto un po’ di sport. Quindi, devo farlo praticamente tutti i giorni. Mi piacciono gli sport da combattimento. A lungo ho praticato il karate. Poi sono passato al jujutsu brasiliano. È straordinario anche per qualcuno che come me inizia ad avere i suoi anni. Si perde in velocità, ma è talmente strategico».
È vero che ha sfidato in combattimento un editore che non voleva pagargli i diritti d’autore?
«Sì e ho pure vinto. Poi ha pagato».
Cosa rappresenta per lei l’Italia?
«Un appuntamento fisso. Ho la fortuna di avere un amico che ha una grande casa nella campagna umbra, al confine con la Toscana. Si trova fra Cortona e Città di Castello, vicino a Trestina, un paesino perso fra le colline. Ma da lì si sale, si sale, almeno una ventina di minuti per raggiungere la casa. Il proprietario invita me e altri amici una settimana ogni anno. Lì riesco a lavorare benissimo. Ci sono vari artisti, ognuno dietro al suo progetto. Corriamo un po’, poi si mangia in un agriturismo intorno. Una vita stupenda».