Tuttolibri, 10 ottobre 2020
12QQAFM10 Intervista alla scrittrice Edwige Danticat
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Aveva due anni quando è partito il padre, quattro quando è andata via la madre. E lei è rimasta a Haiti, con zii, fratello e altri cugini i cui genitori stavano in Canada o anche solo nella Repubblica dominicana, vicina ma quasi un altro mondo rispetto al suo paese. Edwige Danticat era uno dei tanti «orfani temporanei» di migranti che fanno la scelta - rischiosa e inevitabile in terre devastate - di separarsi dai figli per preparare loro un futuro (forse) migliore. I suoi ci son riusciti. Con i loro sacrifici - madre sarta, padre in autolavaggio di giorno e in fabbrica di notte - hanno realizzato per lei il sogno americano. A Haiti Edwige sapeva che prima o poi li avrebbe raggiunti a New York e un giorno, quando finalmente la coppia ottiene i documenti, succede davvero. E a 12 anni si trova, lei che parlava solo creolo haitiano e un po’ di francese fatto a scuola, a imparare in fretta l’inglese. In questa lingua avrebbe in futuro pubblicato romanzi e racconti e oggi è una delle scrittrici più lodate degli Usa, amata dalla critica e dal grande pubblico, una pluripremiata ovunque che scrive sul New Yorker ed è consigliata dai book club di Oprah Winfrey e - quest’estate - di Reese Whiterspoon. Per lo più ha scritto romanzi, La vita dentro uscito ora in Italia da Sem è una raccolta di racconti. Dice che in ciascuno c’è un po’ di lei, della sua infanzia di bambina separata dai genitori, di ragazzina emigrata che ha affrontato pregiudizi e razzismo. E dentro ci sono Haiti, le calamità naturali e politiche, l’esilio, l’immigrazione, la morte. Eppure, oltre all’ironia, il filo rosso che corre dal primo all’ultimo racconto è l’amore, perché, dice la citazione in esergo, amare «è l’unica vera avventura».
Lei ha scritto tanti romanzi, questi son racconti. Qualcuno ha detto che "il romanzo è un matrimonio, il racconto un appuntamento". Vero?
«Sì ma alcuni matrimoni sono anche brevi e alcuni appuntamenti lunghi… Io preferisco un’altra metafora, il racconto come un dipinto: nel momento in cui lo guardi t’innamori dell’immagine anche se non sai cosa c’è prima e dopo, sei totalmente preso».
Nella raccolta c’è un ordine da seguire per il lettore?
«Sì, vorrei leggesse il primo racconto poi quello successivo fino all’ultimo perché è una costruzione organizzata, in cui ho messo molto pensiero. Non è un romanzo ma mi piace l’idea che il lettore attraversi il libro come l’ho inteso io. Se vuole saltare, libero di farlo».
Il primo racconto, "Dosas", contiene alcuni dei suoi temi ricorrenti: donne, amore, tradimento, perdita dell’amore, perdita della patria. La protagonista, Elsie, è una donna forte ma si fa truffare dall’ex marito e dalla migliore amica. Perché donne intelligenti sono spesso così ingenue?
«Perché le donne intelligenti si innamorano. E credo sia di tutti, donne e uomini, voler credere nel bene e che le cose cattive siano eccezioni. Quando amiamo vediamo il mondo in positivo, ma qui si tratta di un amore disordinato e complicato. Elsie ama il marito, ma anche la donna di cui s’innamora il marito».
Elsie è una badante, è ancora uno dei lavori più diffusi tra gli immigrati haitiani?
«La cura è uno dei lavori più comuni fra gli immigrati a Miami. Si occupano di anziani o di bambini, cose che probabilmente facevano anche nel loro paese. È l’entry level del mondo del lavoro. Alcuni hanno avuto persone che hanno fatto per loro il mestiere che ora fanno per altri, ma quando sei un migrante prendi il lavoro che ti è più accessibile, non importa quale».
"Everything inside" è il titolo della raccolta, in parte lo spiega in questo racconto.
«Un giorno camminavo qui nel mio quartiere, che si sta gentrificando molto in fretta. Su una finestra ho visto un cartello con un bersaglio e le parole Nothing inside is worth dying for. Avvertiva i ladri che sarebbero morti se avessero cercato di entrare. Mi sembrò, applicato al clima attuale sull’immigrazione, una sorta di minaccia xenofoba. Allora ho pensato che, invece, "per tutto quel che c’è dentro di noi VALE la pena di morire". Tutti i personaggi del libro si sono presi grandi rischi convinti che per un futuro migliore valesse la pena di morire. Così ne ho fatto il titolo».
Il secondo racconto è "Ai vecchi tempi", che sono quelli dopo la caduta del regime. Davvero questo evento così atteso ha causato la divisione di tante famiglie di immigrati?
«Durante la dittatura di Duvalier a Haiti, molta gente fuggita negli Usa pensava che ci sarebbe rimasta solo per un po’. Alla fine del regime, questi volevano tornare a Haiti ma molti avevano figli nati qui e altri vincoli, così la decisione se tornare o restare ha diviso famiglie che conoscevo».
La protagonista cena al ristorante ascoltando le conversazioni attorno e chiedendosi perché la gente dà notizie che cambiano la vita davanti a un piatto. E si risponde che in pubblico e con la bocca piena chi le riceve non può urlare. La deduzione è sua? E lei ascolta i discorsi altrui per trovare storie?
«Sì. Da piccola andare al ristorante era una cosa grossa, che si faceva solo in occasioni molto speciali. C’era una cerimonialità che mi piaceva un sacco. Ascoltavo sempre quel che la gente diceva al tavolo vicino per capire quale dramma si stava svolgendo. A volte una storia d’amore. A volte una tragedia. È come un mini-teatro».
In "Amami e poi lasciami" cita il "reclutamento" di giovani per invitarli a tornare a Haiti e mettersi al servizio del paese. Funziona?
«In verità questo si basa su un programma a cui ho partecipato molti anni fa. Il ministero degli haitiani all’estero voleva invitare giovani della diaspora a tornare sull’isola per capire come aiutarla. Molti sono venuti e rimasti per settimane. E tanti ci sono tornati per restare o sono andati spesso per far partire programmi per bambini o aiutare in associazioni no profit».
Qui parla anche di un altro aspetto della diaspora, non essere più considerati del tutto haitiani, quasi "blan", stranieri. Si sente così?
«No così no, però a volte mi si ricorda, anche nella mia famiglia, che ho una diversa prospettiva su Haiti perché ne vivo fuori. Penso che la critica sia valida, ma la diaspora ha a cuore l’isola e può fare molto».
"Il dono" racconta del terremoto del 2010. Son 10 anni e c’è stato anche un uragano, ma ora il mondo ha dimenticato Haiti?
«Sì c’è meno attenzione. Quelli che la conoscono e amano certo non se ne sono dimenticati. Ma ora sta succedendo di tutto nel mondo e anche ad Haiti. Ci sono state proteste contro il presidente per un anno. C’è un problema serio di gang che hanno connessioni con il governo. C’è il Covid, ma non ha devastato Haiti come preannunciato o come il colera portato dalle Nazioni Unite dopo il terremoto. In parte per la solidarietà haitiana, in parte perché l’isola non ha avuto tanti ingressi quanti ne hanno avuto altri paesi più turistici».
In "Alba, tramonto" l’anziana protagonista dice che in questo mondo è normale essere infelici e sottostare ai capricci di tutti, dittatori, uragani e terremoti. Lo dicevano i suoi?
«Lo diceva mia madre. Lo dicono i vecchi migranti ai giovani perché hanno sacrificato tanto perché loro potessero avere le cose più facili, e li rimproverano sempre per non apprezzare abbastanza questo privilegio».
L’ultimo racconto: "Approdi". È poetico e brutale insieme. L’uomo scampa al mare ma finisce nel cemento. È una morte "pulp", che fa chiudere la raccolta con un po’ di pessimismo. Alcuni immigrati hanno il destino segnato?
«Alcuni immigrati si imbattono in molte avversità. Quando ni sono trasferita a Miami da New York, fra le notizie che mi colpivano c’era l’arrivo di barche cariche di persone da Cuba o Haiti. I cubani erano considerati rifugiati politici e gli era permesso restare. Gli haitiani erano considerati rifugiati economici ed erano spesso rimandati indietro. Anni fa ho scritto il racconto "Bambini del mare" basato su interviste fatte a chi arrivava da Haiti a Miami in barca. Volevo dargli un seguito, immaginando che cosa potrebbe succedere a uno di quei bambini. E siccome un’altra notizia che mi colpiva qui a Miami era quanti lavoratori edili cadevano lavorando alla costruzione di hotel e grattacieli in cui non avrebbero mai potuto passare una notte, anche questo è diventato uno degli elementi del racconto».
Come è diventata scrittrice?
«C’erano cose dentro di me che volevo vedere espresse nella pagina. La mia prima scuola di scrittura sono stati i racconti orali in famiglia. Il modo in cui le mie nonne e zie strutturavano una storia, come la dicevano, avevano un grande potere su me bambina. L’immediatezza di una storia orale è una grande lezione, chi raccontava osservava la mia risposta e se parevo annoiata o sul punto di addormentarmi accelerava».
I suoi genitori avrebbero preferito facesse altro?
«Volevano che studiassi medicina per i vantaggi economici e il prestigio, ma erano anche preoccupati perché avevano vissuto sotto la dittatura. Han sempre sentito di scrittori esiliati o uccisi. Anche a New York temevano che quel che avrei scritto avrebbe potuto avere conseguenze sui parenti di Haiti. Alla fine però erano fieri».
I suoi romanzi sono stati nella selezione di Oprah Winfrey e quest’ultimo nel Book Club di Reese Whiterspoon. Che significa per lei?
«Una sorpresa. Vuol dire avere nuovi lettori, che non mi hanno mai letto prima e poi mi seguono negli anni. Sono molto grata di essere stata scelta».